Bertinotti supera l’esame, applausi dai giovani di An

Confronto all’insegna del «fair play» alla festa di partito fra il presidente della Camera e Fini. La platea apprezza il duetto sulle privatizzazioni

Luca Telese

da Roma

Meno male che c’è Cuba. Qualcosa su cui litigare Gianfranco Fini e Fausto Bertinotti l’hanno trovata. Altrimenti, la notizia del dibattito più atteso dell’estate sarebbe stata: il subcomandante ai giovani di An è piaciuto. Ma soprattutto: lui a quella platea voleva proprio piacere. Le premesse erano disastrose: polemiche roventi, presidi antifascisti del Pdci contro l’intervento del presidente della Camera (definito «revisionista» e «scellerato»), il terribile delitto contro un ragazzo dei centri sociali che aveva avvelenato la vigilia.
Dopo di che Fini, da consumato animatore di dibattiti, rompe il ghiaccio: «Chi come me ha vissuto gli anni di piombo non può non vivere questo appuntamento come manifestazione di reciproca civiltà». Poi, un omaggio irrituale: «In una società di voltagabbana ben venga chi ha idee chiare, rigore morale e personale eleganza». Si scopre che se di duello si tratta, è di «seduzione». Reciproca. Perché fin dal primo intervento sulle privatizzazioni, Bertinotti conquista applausi scroscianti tra molti ragazzi della destra sociale (e non solo). Duetto splendido, merita di essere riprodotto. Il leader di An: «Il vero paradosso di questo Paese è che si sono privatizzati gli utili e socializzate le perdite» (applausi convinti). E «Berty», per non essere da meno: «Scusate, ma devo dirlo: lo Stato di oggi, per me è troppo poco interventista. La Francia di Chirac fa dell’Airbus un progetto strategico europeo... E lo fa sfidando gli americani!» (applauso fragoroso). Fini: «C’è stato un momento in cui questo era un Paese di economia liberale con sacche di socialismo reale!» (risate e applausi). Ma - paradosso - dalla platea si leva una voce: «Guarda che l’Iri l’ha fatta Mussolini!». È il capogruppo del Prc al Senato, Giovanni Russo Spena. Si diverte a fare il fascistissimo, lui. Splendido.
Lo sconfinamento reciproco è ormai autorizzato. Fini parla di Prodi. «Il suo dovere...». Scatta l’applauso. Il leader di An gioca contropelo, sarcastico come solo lui sa: «Eh no! Fatemi prima dire qual è, sennò è applauso preventivo...» (risate). Ma Bertinotti piacioneggia alla grande. Giorgia Meloni, moderatrice discreta ma impietosa (appollaiata su uno sgabello che fa tanto Alba Parietti), incalza. Che pensa del caso Rovati-Telecom? E lui, braccia larghe: «Che sventura. Quando ero piccolo, spesso ero costretto a ripetere una battuta mutuata dal cinema (Il Sospetto, ndr): “Sono un militante comunista, non ho nulla da dichiarare...”» (risolini). La Meloni: «E ora?». Lui, gigione: «Sono il presidente della Camera, e non posso dichiarare nulla. Brutta vecchiaia!» (mormorii di simpatia). Poi avverte, dirà cose indigeste: «Non c’è solo il conflitto Nord-Sud. Ma anche quello lavoro-mercato» (ovviamente lo applaudono). Scherza un dirigente torinese di Ag, Roberto Ravello: «Mi pare che sui temi economici Fini parli come uno che non è più fascista. E Bertinotti... come uno che non sa di essere fascista». Malizioso? Mica tanto: di nuovo Bertinotti «sconfina» pesantemente: «Quando con la mia famiglia mi trasferii da Torino a Roma, a Vigna Clara... Mi ritrovai stupito davanti a un panorama sterminato di manifesti del Msi e...» (platea in attesa) «... quei manifesti, che si distinguevano per essere fatti soprattutto a mano, cosa che a me diceva della militanza che c’era dietro... beh, questi manifesti parlavano di ecologia, temi sociali, diritti... temi di cui nel mio Nord la sinistra aveva la totale esclusiva!» (applausi per il riconoscimento). Bertinotti si supera: «Dico così: tutte le civiltà concorrono alla costruzione della Civiltà!». Pure i manifesti missini? Caspita. Un ragazzo del servizio d’ordine mormora: «Ahò, Rauti nun ha sfondato a sinistra, questo sfonna a destra!».
La Meloni chiede ai due leader di indicare ai giovani un libro, un film e una canzone che hanno amato. Siparietto divino. Fossero stati al liceo si sarebbe detto scena muta: entrambi sono impreparati. Fini esita, poi si rifugia in Sinatra: «Direi My way, per la bella immagine della vita». Quindi, riprendendosi, e cripto-missino: «E Battisti... avete presente certe parole, che alludono a certe idee?» (tutti in platea pensano a «Planando sopra/ boschi di braccia tese» e scatta l’ovazione). Berty prova a smarcarsi: «Posso dire l’Internazionale?» (tutti ridono. No, proprio non può). E lui si rifà con un classico para-berlusconiano: «Amsterdam di Jacques Brel: per le sue atmosfere: porti, nebbie...». Ma poi consiglia «le poesie di Leopardi», che fa tanto liceo. Allora Fini ha una riminescenza: «A 20/22 anni la nostra poesia-cult era If di Kipling» (stavolta è boato). Però Bertinotti stupisce sul film. Fino a ieri diceva che il suo preferito era Il Ferroviere di Germi? Macché, ora tira fuori un regista (un tempo) fascistissmo: «Million dollar baby, Clint Eastwood!». La confusione regna. Il giovane intellettuale barese Michele De Feudis cita Marcello Veneziani e un intellettuale di sinistra, Franco Cassano, e manda il leader Prc in sollucchero: «Sì, le nostre parti, per pudore reciproco, hanno rifiutato di indagare cosa accadeva sottotraccia nei mondi paralleli e connessi» (manca solo il bacio, è troppo). Le domande dei ragazzi «salvano» la situazione, perché i due leader si pizzicano su Fidel, Ungheria e droghe. Ma sono più applausi che fischi: bon ton e empatia hanno accenti autentici. «Le nostre parti - osserva Bertinotti - si sono contrapposte anche sul piano fisico. Bene, vorrei che questi tempi non tornassero più».

Fra tanti applausi, il più vero. La Meloni conclude con Junger: «Vogliamo un mondo con la sua melodia infinita, con la dolorosa tensione dei contrasti». Oggi prevale la melodia pacificatoria meloniana.
luca.telese@il giornale.it

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