Bertinotti torna in campo e si candida contro Veltroni

Il presidente della Camera rinuncia al ruolo di "padre nobile" e si prepara a guidare la sinistra

Bertinotti torna  in campo e  si candida contro Veltroni

Roma - Lo dice anche Lella Bertinotti, dal parterre della sfilata di moda di Raffaella Curiel. «È il tempo del silenzio, arriveranno tempi migliori». Il presidente difatti non parla, se non nei fitti conciliaboli istituzionali. Con Napolitano, Marini, Veltroni: instancabile è l’attività di Fausto Bertinotti, che in questa fase sta giocando la sua partita più difficile. È in ballo la stessa sopravvivenza di Rifondazione, un partito allo sbando, e il primum vivere è il primo comandamento di ogni politico che si rispetti.

I margini per la nascita dell’esecutivo Marini sono ristrettissimi: Bertinotti teme che si risolva nella solita, triste ricerca di quel voto in più. Dunque conviene attrezzarsi. Ha anche piena consapevolezza che Veltroni non vuole tornare sui suoi passi e correrà da solo. «Dal suo punto di vista, ha ragione: gli fa gioco presentarsi come novità assoluta, senza zavorre di nessun tipo», ha confidato ai suoi fedelissimi, riducendo le speranze di desistenze e trucchetti elettorali vari. La sfida merita di essere raccolta, ha fatto capire il presidente, perché la legge elettorale (soprattutto il Porcellum) imporrà la nascita della Cosa rossa anche ai più riottosi. «Persino Diliberto si accorderà, vedrete, dove potrebbe mai andare?», confida il gruppo dirigente che pure sobbalza a ogni intervista del segretario semper-comunista.
Se lo scenario elettorale presto diventerà concreto, le pressioni di questi giorni non lasciano adito a dubbi: Bertinotti rinuncerà al suo proposito di restare «padre nobile» della Sinistra e scenderà in campo come terzo incomodo nel duello Berlusconi-Veltroni. Una posizione strategica soprattutto in caso di sconfitta veltroniana, perché aprirebbe alla Sinistra Arcobaleno le praterie di un’opposizione finalmente senza se e senza ma. Lievito capace di gonfiare l’aggregazione fino alle dimensioni della Die Linke del tedesco Lafontaine.

Tutto bene quel che finisce bene? Non tanto. Perché in questi giorni i sondaggi attribuiscono al Prc uno striminzito 3,5 per cento, minimo storico per il partito che da solo arrivò all’8 per cento nel ’96. Circoli e sezioni sono in subbuglio: «Certi compagni non entrano più nei bar perché non sanno che cosa dire...», racconta un parlamentare che resterà anonimo. Un altro racconta di tessere strappate davanti ai suoi occhi. «Sembriamo pugili suonati», confessa un terzo, lamentando «frustrazione, e un grave disorientamento fin nei gruppi dirigenti». In verità, nei giorni caldi della crisi questo sbandamento non è sfuggito neppure allo stesso presidente della Camera, che ha visto smentire la propria posizione sul governo istituzionale dai massimi dirigenti del partito. Un «nervosismo inconcepibile», a detta dello stesso Bertinotti, che nei momenti difficili si riscopre combattente e vorrebbe che i vertici reagissero con altrettanta serena lucidità.

La costruzione della Cosa rossa, infine, non sarà indolore. Bertinotti è intenzionato a tagliar corto sulla questione del simbolo. Conferma il suo alter ego Alfonso Gianni: «Ragazzi, bisogna scegliere: o i vecchietti che mettono a occhi chiusi la croce su falce e martello o si dà il senso della novità, della sfida per una sinistra moderna». Ma nel partito, come sul passaggio del governo istituzionale, ormai la minoranza ha alzato la cresta e vuole morire comunista. Come Diliberto e Grassi la penserebbe circa la metà della segreteria (Ferrero compreso). Mentre Pecoraro Scanio, avendo incassato l’arcobaleno nel nome e nel simbolo transitorio, sarebbe pronto a rinunciare al Sole. Dulcis in fundo, si fa per dire, la Sinistra democratica: un vero rebus. Si dà per scontato che la prima cerchia (Mussi, Salvi, Leoni, Di Salvo, Crucianelli) non potrà tirarsi indietro da liste nelle quali «vedremmo bene anche i socialisti», dice Leoni.

Eppure sono in pieno svolgimento trattative riservate per inserirsi nelle liste veltroniane del Pd. La «testa di ponte» di Vita e Caldarola, lasciata ad hoc nel Pd dopo il congresso di Firenze e rafforzata dalle primarie, funziona a meraviglia.

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