Bertoldo e Bertoldino il mondo alla rovescia

Quattrocento anni fa Giulio Cesare Croce, letterato-cantastorie, creava la saga dell’irriverente villano e del suo figliolo

Quali lunghe fila portano al Bertoldo di Giulio Cesare Croce, scritto giusto quattrocento anni fa? Di quale mutevole maschera, sembiante, paradigma umano, è portatore, nella tradizione «popolare» del mondo alla rovescia e della farsa carnascialesca? Forse non si può neppure stabilire quanto lontano affondi l’origine della sua figura, se addirittura possa esser fatta risalire al Lucio delle Metamorfosi di Apuleio. La creazione dell’uomo bestiale, vagamente demoniaco e all’occasione dotato di una saggezza misteriosa e sospetta, rientrava piuttosto nella sfera delle antiche «libertà di dicembre», nei riti agrari in onore di Saturno in cui un’anarchia programmata poteva sovvertire temporaneamente l’ordine delle cose.
A raccogliere quello spirito saturnino era comparsa, all’inizio del Medioevo, la famosa Contradictio Salomonis, una competizione verbale che vedeva contrapposti, da una parte, il figlio stesso di David, Salomone, l’uomo che segna il vertice della probità, della sapienza, della ricchezza, e dall’altra l’orrido e immondo Marcolfo, essere sulfureo, dalla battuta caustica e mordace. Questo dialogo latino era circolato a partire dal V secolo, e si era diffuso, nonostante i tentativi della Chiesa di soffocare la popolarità di una fabula tanto sovvertitrice, dall’Asia Minore all’Inghilterra. Poi, nella seconda metà del XII secolo, le varie tradizioni incentrate sulla Contradictio erano confluite nell’anonimo Dialogus Salomonis et Marcolphi, che alla fine del Quattrocento ebbe una nuova fortuna anche editoriale, finché nel 1502 uscì a Venezia una sua prima volgarizzazione, El Dialogo de Salomon e Marcolpho, seguita da un’altra traduzione ancora veneziana ma meno rustica, il Dialogo Intitolato Salomone e Marcolpho, nel 1550.
In quello stesso anno, incidentalmente, nasceva a San Giovanni in Persiceto, non lontano da Bologna, Giulio Cesare Croce. Figlio di un fabbro, fu mandato per qualche tempo a imparare a leggere e a scrivere da un precettore, poi, morto il padre, andò a vivere altrove, da uno zio che, invece d’indirizzare il ragazzo al sapere libresco, preferiva fargli fare i lavori nei campi, e questa forzosa esperienza contadina dovette essere così traumatizzante per lui da riverberare, come un incubo remoto, nella sua tarda autobiografia. Tornò dunque a fare il fabbro, e questo pareva essere il suo destino anche quando, a diciotto anni, si trasferì a Bologna. Non si sa quanto potesse essere ribaldo quest’uomo, visto che frequentava compagnie di nottambuli e gli capitava «talora» di finire in carcere, certo doveva avere una sua bizzarra indole allegra, buffonesca, fabulatoria, se cominciò a girare per le strade e per le piazze facendo il cantastorie. Si accompagnava con un violino, per cui era conosciuto come il «Giulio dalla Lira», stampava e vendeva in opuscoli e fogli volanti le sue fole, in italiano e in dialetto, che avevano per argomento i casi della vita, le carestie, le feste, le risse, la fame, le donne. Scriveva anche cose che avevano maggiore ambizione letteraria, come commedie e favole boscherecce, ma il mecenate, il necessario protettore, non saltava fuori e visse quindi ai margini, con due mogli successive, e sette figli dalla prima e sette dalla seconda.
Nel 1606, pubblicò l’operina, modesta ma esemplare a suo modo e magica, per la quale il Croce sarebbe rimasto famoso: Le sottilissime astuzie di Bertoldo. Il Bertoldo non è solo il rifacimento del Dialogo di Salomone e Marcolfo, è qualcosa di più complesso e di diverso, per la preponderante e personale impronta crociana, e per quell’apporto che vi ha il Libro di Marco Aurelio imperatore (Venezia 1581) di Antonio de Guevara, storiografo cesareo di Carlo V, messo in evidenza da Piero Camporesi, cui si devono sia il restauro testuale del Bertoldo nell’edizione Einaudi del 1978, sia un saggio magistrale sulla maschera rappresentata da questo personaggio (Garzanti 1993; ma dotti e preziosi sono anche gli apparati di Giampaolo Dossena per il Bertoldo di Feltrinelli e di Rizzoli-BUR). Ma, se l’oltraggioso Marcolfo è un guappo vendicatore del mondo «basso», un dissacrante portavoce della cultura diaboli, di cui gli uomini dei campi, i bifolchi-bestia, erano i ministri temibili e rivoltanti, nel libro del de Guevara il villoso «animale in forma umana», che dalle sconsolate contrade danubiane si presenta spudoratamente al cospetto dell’imperatore Marco Aurelio, viene in fondo a chiedere giustizia per il suo popolo vessato dai conquistatori romani. Il salto definitivo, pur conservando l’aspetto mostruoso e la valenza provocatoria e rivoluzionaria dell’eloquio, è il Bertoldo di Giulio Cesare Croce, che si fa «homo di corte e regio consigliero».
«Era costui picciolo di persona, il suo capo era grosso e tondo come un pallone, la fronte crespa e rugosa, gli occhi rossi come fuoco, le ciglia lunghe e aspre come setole di porco, l’orecchie asinine, la bocca grande storta, con il labbro di sotto pendente a guisa di cavallo...»: così ci viene innanzi Bertoldo, con tuti i segni di un’umanità grottesca e difforme. Egli è un freak, uno scherzo di natura, un enigma vivente, e per questo forse depositario di un cifrario occulto in cui la stessa natura si diverte a volte a inscrivere misteriosamente alcuni dei suoi segreti. Dunque Bertoldo, meno tristo e più strambo del Marcolfo che va da Salomone, si presenta alla corte di Alboino che regna su quasi tutta Italia dal suo trono di Verona, e senza un atto di reverenza passa tra signori e baroni, va dritto a sedersi accanto al re, che gli chiede: «Chi sei tu, quando nascesti e di che parte sei?». «Io son uomo - risponde Bertoldo - nacqui quando mia madre mi fece, e il mio paese è il mondo». Allusiva o diretta che sia, la sua franca sfrontatezza può volta a volta rifarsi alla furberia contadina o alla saggezza spicciola meglio se anche un po’ acre, oppure al nonsense apparentemente demenziale, ma capace sempre di evocare un moto d’irriverenza equilibratrice e di riscatto. Quando il re gli chiede cosa l’abbia mosso a venire lì, egli dice che è stato il crederlo, in quanto re, un uomo che svetta sugli altri come i campanili sopra le case, e invece lo trova «uomo ordinario, se ben sei re». «Ma chi t’induce a fare questi ragionamenti?» «L’asino del tuo fattore» risponde Bertoldo. E cosa c’entra l’asino? «Prima che fosti tu, né manco la tua corte, l’asino aveva raggiato quattro mill’anni innanzi».
Il «matto» Bertoldo, nonostante tutte le sue audacie, sembra integrarsi tra coloro che sono stati e in qualche modo restano bersaglio delle sue astuzie, della sua verve primitiva e irriverente; il suo spirito si fa, da caustico, oracoleggiante e distributore di sentenze gradite, di riveriti consigli. Muore così Bertoldo, per avere abbandonato la dura dieta di castagne e di fagioli, e chissà se questa è una punizione del repentino rovesciamento sociale. Sua moglie Marcolfa ha dato a Bertoldo un figlio, Bertoldino, protagonista del seguito delle Sottilissime astuzie, scritto nel 1608, Le piacevoli e ridicolose semplicità di Bertoldino, dove si ha un vero rovesciamento oppositivo della coppia padre-figlio. Non potendo emulare il padre in astuzia e mordacia, Bertoldino, come travolto da un mare di aequivoca, lo scavalca nel territorio della mera semplicità di mente.

A suggellare l’intera avventura umana e letteraria di Giulio Cesare Croce, non si può non ricordare il fatto che, alcuni anni dopo la sua morte avvenuta nel 1609 senza aver ottenuto alcuna vera fama, il bravo musicista bolognese Adriano Banchieri, scrisse e pubblicò nel 1620 la Novella di Cacasenno figlio del semplice Bertoldino, e che da questo momento Bertoldo-Bertoldino-Cacasenno formano un tutt’uno, dove questa triade inscindibile rimanda subito ai personaggi e induce col tempo a dimenticare il Croce, tanto che nel 1730 circa, a Bologna, l’editore Lelio commissiona all’incisore Ludovico Mattioli venti tavole sulla saga bertoldesca e, a letterati di grido, venti canti in ottave sugli stessi temi. Nascerà così un nuovo libro, Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno che non avrà più nulla a che fare con i due testi di Croce e con la «continuazione» di Banchieri.

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