Sei italiani su cento alla mega-mostra che aprirà la Biennale di Venezia il prossimo 10 giugno (il «poverista» Giovanni Anselmo, il buon fotografo Gabriele Basilico, e i più giovani Angelo Filomeno, Luca Buvoli, Paolo Canevari e Luca Barbieri). Ad allungare la magra lista se ne aggiungeranno altri sei (Concetto Pozzati, Renato Mambor, e i giovanissimi Stefano Bombardieri, Donato Piccolo, Dario Arcidiacono) invitati generosamente dal padiglione siriano di cui il sottoscritto ha avuto la cura. Nata per sostenere essenzialmente la presenza nazionale in ambito internazionale, la Biennale di Venezia ha finito col togliere a poco a poco lItalia dal suo posto tradizionale donore, rimediando per questa edizione con un Padiglione di due soli autori, Giuseppe Penone e Francesco Vezzoli, dei quali il primo è un arcinoto «poverista lezioso» e il secondo è italiano solo di nome, perché assai più interessato alle idiosincrasie che attraversano la vita attuale degli Usa (per Venezia ha preparato una video-installazione detta Democracy in cui si tratta della prossima campagna elettorale alla presidenza degli States: e sai che goduria).
Non si tratta di fare piagnistei vetero-nazionalisti. LItalia è Paese ospitante - e pagante - lartificiosa macchina della Biennale: avrà o no interesse a vedere rappresentati un po meglio coloro che nel suo territorio si esprimono in accordo, e naturalmente anche in contrasto, con la sua immensa tradizione culturale, antica e moderna, nel campo delle arti visive? Noi pensiamo di sì, e per questo diffidiamo del «percorso nuovo» annunciato ieri a Roma dal Presidente della Biennale Davide Croff e ribadito dal direttore artistico Robert Storr (che parla solo inglese, malgrado lavori in Italia da almeno tre anni) nonché dalla curatrice dello striminzito Padiglione italiano Ida Gianelli. Indietro non è giusto tornare ed è altrettanto vero che chi si ferma è perduto: ma limpressione è che una macchina complessa come la Biennale fatica a riconoscersi nella galassia multiculturale odierna, soprattutto quando ci si sforza più a sfumare le differenze (di stile, di storia, di mentalità e di progetto estetico) che ad accentuare il confronto delle idee e delle posizioni. La sfumatura, poi, diventa altissima quando con il professor Robert Storr la 52ª Esposizione Internazionale dArte prende il titolo di «Pensa coi sensi - senti con la mente»: dove più che apprezzare lossimoro (il famoso «sensuous tought» di T.S. Eliot) non si capisce se dare retta al primo o al secondo consiglio che ne è lesatto contrario.
In poche parole, anche questa volta il neo-direttore si è trovato nellimbarazzo della scelta (un punto di vista, una idea, una tendenza). E ha scelto di non scegliere «né in termini di stili ha detto - né di mezzi artistici, di generazioni, paesi o culture». Andiamo bene. Soprattutto se questa mostra di Venezia sarà una mostra che «guarda al futuro, non al passato» (e tanto peggio per il futuro). E soprattutto se la Biennale di domani dovrà corrispondere sempre più a quel progetto di «rete europea» - di cui ha parlato Davide Croff - capace di collegare tutti i maggiori centri espositivi del continente («Documenta» di Kassel, lo «SkulturProject» di Münster, «Artbasel», ecc.) con tutto il via vai di pacchetti turistici tra viaggi in aereo e in treno, prenotazioni di hotel ed altri sostegni logistici. Il Grand Tour culturale di massa è dunque sul punto di decollare alla grande. Per vedere cosa lo abbiamo più o meno capito: la confusione di un bric-à-brac mondiale per tutti i gusti dove conta imperturbabile il dogma pluralistico della «non scelta».
Che poi nella suddetta rassegna gli artisti italiani siano presenti col lumicino è affare di secondaria importanza, sembrano quasi ritenere organizzatori e ideatori.
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