Il big bang all’origine del cristianesimo

«Papà, che prove abbiamo della resurrezione di Gesù?». Basta una domanda come questa, per metterti fuori gioco. Non si può rispondere con un discorso, non si può raccontare una favoletta. La domanda diretta e concreta di un bambino costringe a riflettere, esige una risposta altrettanto concreta e diretta. Per molti ormai la Pasqua è la «festa della primavera», l’occasione per sacrosante rimpatriate con parenti e amici o per qualche gita fuori porta. I «segni», gli «indizi» di quanto accaduto in quella notte misteriosa di duemila anni fa, una buia notte d’aprile in una marginale provincia dell’impero romano, anche da chi crede sono considerati scontati o comunque non interessanti. Non trovano spazio nelle omelie. La fede è troppo spesso presentata come un atto cieco, quasi irrazionale, frutto di un autoconvincimento che ci si deve fabbricare dentro di sé, magari leggendo il Vangelo. E questa insistenza fa venire in mente l’ossessivo protagonista che suscitava repulsione in una poesia di Giorgio Caproni: «Gridava come un ossesso./ “Cristo è qui! È qui!/ Lui! Qui tra noi! Adesso!/ Anche se non si vede!/ Anche se non si sente!”/ La voce, era repellente».
Quale distanza incolmabile tra questa posizione e la semplicità dei primi testimoni di quell’avvenimento destinato a cambiare la storia dell’umanità. Ecco la «prova». Sono i volti, il cambiamento accaduto in quel pugno di seguaci rimasti schiantati dalla morte del loro messia sulla croce. La paura delle donne davanti alla tomba vuota, il primo dubbio della Maddalena, la corsa al sepolcro di Pietro e Giovanni che «vide e credette», l’incredulità di Tommaso soddisfatta dallo stesso Gesù. Sulle umane certezze di simili testimoni, gente pratica, abituata a gestire le barche da pesca, non «visionari» o «mistici» pronti a farsi rapire dall’estasi, hanno ironizzato gli intellettuali di tutti i tempi. Eppure proprio quelle iniziali incertezze, che i Vangeli non tacciono, confermano che quello dei primi testimoni non è stato uno sforzo religioso, ma un arrendersi alla realtà, alle cose così come erano di fatto. Solo un evento reale, imprevisto e imprevedibile dopo il fallimento del Calvario poteva vincere le umanissime obiezioni di quel gruppetto di ebrei prima impauriti e prostrati. E farne degli instancabili testimoni di un annuncio inaudito. Ha scritto il cardinale Giacomo Biffi: «A dare il primo impulso alla storia cristiana non c’è qualcosa che può essere rubricato come soggettivo. Non c’è un’intuizione perspicace, una teoria geniale, un’esperienza psicologica, una fantasia estetica, un’autosuggestione, un’elaborazione consolante. Niente di tutto questo: c’è un fatto... Solo un ritorno fisico e palpabile del corpo vivo di Gesù poteva vincere il trauma di quel cadavere scrutato con occhi inorriditi, perché ogni altra forma di ritorno o rinvenimento non avrebbe cambiato niente, un Gesù che fosse stato uno spettro non avrebbe raggiunto lo scopo».
Nessuno dei quattro Vangeli canonici descrive il momento della resurrezione. Quei racconti sono basati sui fatti vissuti dai testimoni, e non ci sono testimoni ad aver visto ciò che accadde nel sepolcro quella notte. I testimoni raccontano invece di aver trovato prima la tomba vuota e poi di aver incontrato il Nazareno nuovamente vivo: hanno potuto mettere il dito sulle sue piaghe, mangiare pesce arrostito insieme a lui. Non si può fare così con un fantasma, non accade questo nei fenomeni di psicosi collettiva. Nei discepoli è avvenuto l’esatto contrario di quanto accade ai visionari: questi ultimi passano dall’esaltazione al dubbio, quelli sono passati dal dubbio iniziale alla fede arrendendosi a un fatto. L’indizio forse più significativo di quanto successo quella notte fuori dalle mura di Gerusalemme è ciò che è accaduto dopo. Sta nell’enorme differenza di atteggiamento di quel gruppetto di seguaci di Gesù, prima sbandati e atterriti, poi instancabili annunciatori del Vangelo della resurrezione, disposti a sacrificare la loro vita per questo annuncio. Lo storico deve ammettere di non essere in grado di spiegare come si sia «prodotta» in quel gruppuscolo di discepoli che il venerdì santo avevano visto miseramente fallire, in modo infamante, le loro attese e le loro speranze, la fede nella resurrezione di Cristo. Lo storico deve riconoscere, come ha scritto il biblista Giuseppe Barbaglio, «in tutta onestà intellettuale di non essere in grado di precisare di più la genesi della fede di Pietro e compagni espressa nella formula antichissima: “Dio lo ha resuscitato dai morti”». Tra i dati storici imprescindibili nell’accostarsi al racconto evangelico, c’è questa cesura. Una cesura inspiegabile tra la sera del venerdì e la mattina della domenica di quell’aprile dell’anno 30 della nostra era. C’è un prima e un dopo.

Non si spiega altrimenti perché questi poveri seguaci del Nazareno, umiliati, impauriti e sconfitti, si siano improvvisamente trasformati in instancabili annunciatori della sua resurrezione, capaci di diffondere quella notizia nel mondo, disposti a sacrificare la propria vita per questo annuncio. C’è un big bang all’inizio del cristianesimo, senza il quale ciò che è accaduto dopo non ha spiegazione.

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