Il Big Bang del Pd:

L’INGRESSO NEL PSE Un’altra polemica vecchia e mai risolta Ieri Rutelli è tornato alla carica: «Noi mai coi socialisti europei»

Il Big Bang del Pd:

RomaÈ come un Big Bang, un turbinante Helzapoppin democratico. È bastato «il caso Villari», come un detonatore piazzato sotto una carica di esplosivo, perché la gracile impalcatura che teneva in equilibrio le varie anime del Pd collassasse dopo lo scoppio, per cedimento strutturale.
Veltroniani & dalemiani again La prima ferita che si è aperta nel partito è l’eterna divisione - che risale alle guerre puniche - fra «veltroniani» e «dalemiani». Una divisione antica e feroce, sempre negata, mai estirpata. E che in questa vicenda trova nella figura di Nicola Latorre il suo emblema: i veltroniani lo considerano il vero regista dell’elezione di Villari, il pizzino mostrato da Antonello Piroso a Omnibus, con una zampata di giornalismo anglosassone, lo inchioda negli scomodissimi panni di «suggeritore» di un leader del centrodestra come Italo Bocchino. Il vicecapogruppo del Pdl alla Camera, l’uomo che ha avuto la trovata d’ingegno micidiale di far convogliare i voti del suo schieramento su un parlamentare di opposizione. Due giorni fa Latorre ha pagato il prezzo di questa fama con l’esclusione dalla commissione di Vigilanza (per far posto a Sergio Zavoli), ieri si ritrovava inseguito dai giustizieri mediatici di Antonio Ricci, quelli che hanno fatto esplodere «il caso pizzino». Ai microfoni di Striscia Latorre appariva affranto: «Mi sento un po’ pendente, come la torre. Di Pisa». Poi ha ammesso, vagamente sconfortato: «È stata una leggerezza, ma in quel pizzino c’era scritto quello che ho più volte detto pubblicamente. Esattamente quello che penso. Parlare di inciucio e di tradimento mi sembra troppo. Credo che sia una critica inaccettabile».
«La casa di appuntamenti» del Pd Ma il nodo vero, pizzineide a parte, è che tra le due anime dell’ex Pds il modo di vedere la battaglia parlamentare e le alleanze è opposto: i dalemiani non volevano morire per Orlando, e considerano persino il compromesso su Zavoli frutto della loro iniziativa e del caso Villari. I veltroniani accusano nemmeno tanto velatamente i propri compagni di partito «di intelligenza con il nemico». E le ormai storiche parole di uno dei proconsoli più seriosi di Veltroni, Giorgio Tonini, a Lucia Annunziata a Titoli sulla tv «Red», la dicono tutta sull’aria che si respira: «A volte il nostro partito sembra più una casa per appuntamenti, una casa dove c’è chi entra ed esce e fa come vuole, altro che stalinismo. In un partito democratico ci deve essere una disciplina democratica, alla quale attenersi». Clima che spinge il senatore veltroniano a non escludere un congresso. Serve un confronto, questa la tesi, ma trasparente. «Basta a questo scopo la conferenza programmatica o non è il caso di fare il congresso?».
Veleni postdemocristiani Non basta. Come un vaso rotto e incollato malamente che si frantuma lungo le sue antiche linee di frattura, anche l’anima degli ex Margherita continua a essere un corpo estraneo rispetto alla leadership. Malgrado le invettive contro Latorre, nessuno scorda che Villari è un pilastro della componente centrista, voluto in lista dal numero due, Dario Fraceschini. Che ha avuto il sostegno cauto, ma mai negato, di Enzo Carra e di tutta l’ala moderata. A Largo del Nazzareno, addirittura, c’è chi ha affibbiato ai postdemocristiani - per odio contro Leoluca Orlando - la co-paternità dell’operazione. E che i rapporti di Veltroni con Francesco Rutelli siano pessimi, a partire dalla trombatura di Roma (e malgrado l’elezione «risarcitoria» alla guida del Copaco), non è un mistero.
La battaglia contro il Pse Così ieri Rutelli apriva addirittura un nuovo fronte d’attacco, in un momento non idilliaco, sulla collocazione internazionale del Partito, diviso nel dilemma se aderire o meno al Pse (come vorrebbero tutti gli ex diessini). Secondo Rutelli «la collocazione internazionale del Pd certo non può essere legata né all’Internazionale socialista né al Pse». Secondo l’ex leader della Margherita, persino l’elezione di Obama sarebbe una conferma delle sue tesi: «Non si può non registrare - aggiunge - l’enorme novità rappresentata dalla vittoria di Obama anche nel Congresso, che apre una nuova stagione politica all’insegna dei valori che non sono certo quelli socialisti. Cosa c’entra Obama con il socialismo, che è una parola impronunciabile negli Usa?». Anche il socialismo, dopo il comunismo per Bertinotti, diventa una parola impronunciabile per i leader della sinistra italiana. «Oggi i partiti guida del campo progressista - attacca ancora Rutelli - sono il Democratic party di Obama, l’Indian Nation Congress di Sonia Gandhi e il Partito dei lavoratori di Lula in Brasile; e nessuno fa parte della tradizione socialista».
L’ironia amara di Parisi Finito? Macché. In campo contro la segreteria, c’è anche - e non poteva essere altrimenti - l’oppositore più antico di Veltroni, Arturo Parisi. «Avevo detto stamane - dice - che nessuno poteva meravigliarsi se, a causa della debolezza della sua legittimazione, la segreteria era ancora una volta costretta a cercare la forza della disciplina del Pd non nelle delibere di organi democratici interni ma nel sostegno esterno di Berlusconi e nei buoni uffici del sottosegretario Letta.

È quello che ha ripetuto ora Veltroni quando ha riconosciuto che solo Palazzo Chigi può risolvere un problema che purtroppo è solo nostro. Mi consenta Veltroni - conclude Parisi - di dire che è questa una resa nella quale rifiuto di riconoscermi». No, non è un conflitto interno. È peggio di un Big Bang.

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