Bipolarismo italiano: pregi e difetti con un occhio all’esempio inglese

La nostra Costituzione repubblicana è rimasta pressoché inalterata nel suo impianto complessivo. È ben vero che di riforme costituzionali più o meno incisive si fa un gran parlare da oltre un ventennio. Ma la montagna dei dibattiti ha partorito, al dunque, soltanto un topolino: la riforma del Titolo V della Costituzione, fortissimamente voluta dal centrosinistra agli sgoccioli della XIII legislatura e sulla quale i suoi stessi artefici oggi versano lacrime di coccodrillo. Eppure non c’è dubbio che né la forma di governo parlamentare né i poteri delle due Camere sono più quelli di prima. Su queste metamorfosi si concentra Vincenzo Lippolis, per decenni alto funzionario di Montecitorio e oggi costituzionalista all’Università Federico II di Napoli, in un ampio saggio che ha per titolo Partiti, maggioranza, opposizione (Jovene, pagg. 186, euro 14).
A fare la differenza è stata la riforma elettorale del 1993, intervenuta dopo un referendum che aveva relegato in soffitta quasi per intero la vecchia rappresentanza proporzionale. Né la recente riforma voluta dal centrodestra ha mutato granché le cose in quanto il premio di maggioranza rappresenta un correttivo della proporzionale. Quasi d’incanto, la democrazia immediata di marca anglosassone ha preso il posto di quella mediata dai partiti. Perciò oggi sono gli stessi elettori a scegliere il presidente del Consiglio, la coalizione ministeriale e il programma di governo. Ma nessuno più di Lippolis, dall’alto dell’osservatorio parlamentare, si rende conto che le leggi elettorali devono fare pur sempre i conti con una Costituzione pensata in un’epoca lontana anni luce dai giorni nostri. E questo spiega il succedersi dei governi nell’arco di una legislatura e i ribaltoni.
Il bipolarismo ha avuto poi ricadute importanti sul Parlamento e sui rapporti tra questo e il governo. Lippolis sottolinea che il governo non è più un convitato di pietra. Grazie a tutta una serie di prerogative stabilite dai regolamenti parlamentari in questi ultimi anni, il governo ha finalmente l’opportunità di tradurre in tempi ragionevoli il proprio indirizzo politico in misure legislative. E poi il governo, non potendo più reiterare i decreti legge per il divieto posto dalla sentenza della Consulta n. 360 del 1996, si rifà con leggi delega dai principi e criteri direttivi sovente evanescenti. D’altra parte l’opposizione, se non può più ricorrere agli ostruzionismi a raffica, ha il potere di porre all’ordine del giorno in commissione e in assemblea le proprie iniziative legislative.
Fatto sta, lamenta Lippolis, che il nostro bipolarismo non è lontanamente paragonabile al bipartitismo che calca la scena di là dalla Manica. Da noi i partiti spuntano come funghi e di conseguenza le coalizioni, soprattutto quella di centrosinistra, sono eterogenee. Perciò il governo rischia a ogni momento di rompersi l’osso del collo. Anche perché con due Camere assolutamente identiche ma politicamente divaricate un incidente di percorso è nell’ordine delle cose. Tra le tante riforme costituzionali necessarie, Lippolis darebbe la priorità a quella del Senato.

Ma si domanda: chi ha la forza di una riforma di tal fatta? Per il vero, la Casa delle libertà ci era riuscita. Ma la sua riforma costituzionale non ha superato le forche caudine del referendum confermativo. Peccato.
paoloarmaroli@tin.it

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