Birmania, i monaci tornano in prima linea

«Non siamo noi ad esser rimasti sordi e muti... non siamo noi ad esser rimasti a guardare». Washington non tace più. Tre settimane e 134mila morti dopo, il segretario alla difesa Robert Gates spara a zero sul regime birmano, esterna tutta l’indignazione americana. Le navi statunitensi, quelle inglesi e quelle francesi sono ancora lì davanti alle coste birmane. Stracolme d’aiuti, ma inutili. Ferme alla fonda in attesa d’un via libera che i generali, ora si sa, non si sognano di concedere. Anzi. Dopo aver centellinato i visti alle organizzazioni umanitarie, dopo aver bloccato i soccorritori, dopo aver sequestrato i soccorsi i militari, cacciano gli sfollati dai campi, li respingono tra le rovine dei villaggi, li fanno seguire dalle squadre anti sommossa.
La nuova parola d’ordine del dittatore Tan Shwe e degli altri tiranni in divisa è far tornare quei disgraziati ai villaggi distrutti, costringerli a soffrire per ricostruire. O forse per morire. Poco importa. Poco cambia. Le vite di quei sudditi contano meno del riso rimasto a marcire tra i cadaveri del delta dell’Irrawaddy. In quella palude infernale il regime deve però far i conti con la resurrezione del nemico. Lì i monaci silenziosi, le tuniche zafferano spazzate via dalla repressione d’autunno, tornano ad aiutare il popolo affamato e a raccogliere i sorrisi di una popolazione abbandonata. Così mentre nel ventre della Birmania distrutta torna a soffiare un alito di rivolta, all’estero circola l’idea di un intervento per l’apertura di canali umanitari.
Le parole scelte da Robert Gates per accusare la giunta birmana di ostacolare gli aiuti «al prezzo di decine di migliaia di vite umane» sono il segnale dell’indignazione statunitense. «Le nostre navi e i nostri aerei hanno atteso invano un’autorizzazione che ci consentisse d’entrare in azione rapidamente e salvare migliaia di vite, come in Indonesia dopo lo tsunami e in Bangladesh a novembre», sottolinea il segretario alla difesa intervenendo alla Conferenza sulla sicurezza in Asia.
Mentre Gates parla decine di blindati carichi di miliziani anti sommossa battono le strade e i villaggi distrutti del delta dell’Irrawaddi. Seguono le migliaia di sfollati cacciati dai campi e costretti a mettersi in marcia portando con se teli di plastica e pali di bambù necessari, come spiega con indifferenza la propaganda di regime, «per ricostruire i villaggi». Chi resta indietro, chi si ferma fa i conti con i manganelli e i fucili dei miliziani mandati a sorvegliare il grande ritorno.
Brad Adams, direttore per l’Asia di Human Rights Watch, denuncia la «totale mancanza di coscienza» dei generali e ricorda che quella loro mossa equivale a «restituire la gente ad uno stato di miseria più grande e forse alla morte». Un rapporto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro dell’Onu denuncia «i maggiori rischi di lavoro forzato, di lavoro minorile, di tratte d’esseri umani e di migrazioni di manodopera» in seguito alla catastrofe birmana. Il rapporto invita ad una stretta sorveglianza e ad «impedire che i bambini sfollati o gli orfani siano sottomessi ai lavori forzati». Per ora sono parole al vento. Gli unici in grado di aiutare i disgraziati in marcia sono ancora una volta i monaci buddisti.
Lì nello Stige dell’Irrawaddy il ciclone Nargis ha distrutto anche i loro santuari , ma in quelli rimasti in piedi s’affollano i senza tetto.

E per dar loro da mangiare i fratelli di Rangoon organizzano ogni giorno convogli di volontari carichi d’acqua, riso e medicine. Sono gli unici a raggiungere le viscere del disastro. Gli unici capaci di distribuire cibo e speranza. Gli unici in grado di riaccendere il fuoco della rabbia.

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