Boss piegati dalle leggi antimafia: stretta su patrimoni e carcere duro

Boss piegati dalle leggi antimafia: stretta su patrimoni e carcere duro

Il più bel complimento l’ha fatto il procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato, un magistrato non certo sospettabile di simpatie berlusconiane: «Senza la norma inserita nel pacchetto sicurezza, che permette di sequestrare i beni post mortem, non sarebbe stato possibile eseguire il sequestro di beni da 250 milioni di euro di oggi». Beni: ovvero società, supermercati, soldi in contanti, riconducibili all’imprenditore Paolo Sgroi. Solo che Sgroi era morto prima dell’aggressione ai suoi patrimoni da parte dei giudici.
Fino alla primavera del 2008 e al varo del cosiddetto pacchetto-sicurezza, le misure patrimoniali s’inchinavano davanti alla morte. E la grande caccia ai tesori della criminalità organizzata si bloccava. Con la nuova norma, uno dei primissimi atti del governo Berlusconi, la situazione è cambiata. E lo Stato ha trovato la chiave per forzare i caveau delle famiglie di Cosa nostra che prima anche dopo la scomparsa dei padrini. La procedura, semisconosciuta dall’opinione pubblica, ha già trovato diverse applicazioni. Per esempio, come ricorda l’ex guardasigilli Angelino Alfano nel suo libro La mafia uccide d’estate (Mondadori) la legge voluta dal duo Berlusconi-Alfano ha permesso di sequestrare i beni di Giuseppe Balsano, capomafia di Monreale, suicidatosi in cella nel 2005. Decine di immobili portati via agli eredi, come prescrive la norma che concede un bonus di cinque anni alle forze dell’ordine, dopo il decesso, per completare lo screening dei forzieri.
La lotta a Cosa Nostra, alla camorra e alla ’ndrangheta non passa solo dalla cattura dei grandi latitanti, spesso nascosti in bunker supertecnologici. La guerra si combatte anche, e soprattutto, a colpi di leggi che tagliano l’erba ai mafiosi e dotano la magistratura di armi sempre più sofisticate per combattere il nemico. Bene, nel silenzio generale, l’esecutivo guidato dal Cavaliere ha partorito alcuni provvedimenti molto importanti in questa direzione. Giornali e tv ne hanno parlato sommariamente, mentre un giorno sì e l’altro pure sono state raccontate le storie di esponenti del centrodestra sospettati di collusioni con Cosa nostra e dintorni. Così una buona parte dell’opinione pubblica si è fatta l’idea che il governo Berlusconi abbia fatto poco o nulla. Ma non è così. I limiti dell’esecutivo non cancellano le sue realizzazioni.
Oggi i patrimoni mafiosi vengono attaccati anche dopo la morte. Come insegnano i casi Sgroi e Balsano. Non solo. Sempre per restare al tema delicatissimo dei patrimoni sono state introdotte, proprio nelle prime settimane di vita del governo, due norme micidiali. La prima permette di sequestrare i beni di presunti mafiosi anche quando questi non siano ritenuti socialmente pericolosi. Se ad esempio un condannato non va in carcere sfruttando lo scivolo della condizionale, la sua «non pericolosità sociale» non blocca l’azione a tenaglia della magistratura per mettere le mani sul suo patrimonio sporco. Ancora più clamorosa la norma successiva, ovvero la «confisca per equivalente». Può sembrare un’espressione astrusa e invece rappresenta una novità importantissima. Oggi infatti è finalmente possibile colpire un boss nel suo portafoglio, anche quando fa il furbo: se il mafioso fa sparire, com’è normale, i beni acquistati illecitamente, lo Stato può rivalersi, per un importo equivalente, sui beni acquistati lecitamente. Può sembrare un aggiustamento, invece la norma ha indovinato la combinazione di molte casseforti mafiose. In un colpo solo a Palmi, terra di ’ndrangheta, il gip ha disposto la confisca per equivalente di opifici industriali, strutture turistiche, alberghi, immobili e quote societarie per un valore di 700 milioni di euro. I beni erano stati comprati investendo capitali puliti, ma lo Stato ha finalmente trovato il modo di sfilarli ai boss.
È difficile calcolare la ricaduta, in termini economici, di queste norme. Ci vorrà qualche anno per stilare un bilancio, ma certo si tratta di numeri pesanti. Pesantissimi. E le nuove norme hanno trovato ulteriore sviluppo con i decreti che hanno istituito il Fondo unico della giustizia e con l’istituzione dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati ala criminalità organizzata. Il Fondo unico realizza un’idea semplice e suggestiva, ma di grande impatto: crea una sorta di conto corrente statale gestito da Equitalia giustizia, che gestisce i soldi presi ai boss. Non che prima non fosse così, ma nel passato la pubblica amministrazione disperdeva in centinaia di banche le somme tolte ai boss e più in generale agli autori di reati. Il Fondo unico potrebbe dare, conclusa la fase di rodaggio, grandi risultati perché lo Stato si ritrova fra le mani un tesoro che prima nemmeno sapeva di avere e potrà farlo fruttare al meglio.
Anche l’Agenzia, nata con il decreto legge del 30 gennaio 2010, segna un passo in avanti sul fronte più scivoloso, anche se dimenticato dai media: quello del sequestro e poi della confisca dei beni appartenenti alla criminalità organizzata. È qui che lo Stato spesso e volentieri si arenava, fra le lungaggini, i formalismi e gli intoppi della burocrazia. Oggi il quadro è cambiato, anche se la verifica del progetto avverrà solo sul campo e nel tempo. L’Agenzia sostituisce il Commissario straordinario e semplifica le procedure prima parcellizzate fra molti soggetti: dall’amministratore giudiziario al prefetto, fino al Demanio. Oggi l’Agenzia segue tuto l’iter, dall’inizio ala fine e anche oltre perché segue i beni fino alla loro assegnazione.
Sono molte le norme scritte per fronteggiare Cosa nostra in questi tre anni. Basti dire che il 13 ottobre 2011, solo due mesi fa, è entrato in vigore il codice antimafia: 120 articoli, criticabili fin che sui vuole, ma comunque il primo tentativo di unificare e razionalizzare tutta la legislazione anti Cosa nostra.
Non solo: il governo ha firmato altri due provvedimenti che hanno un valore simbolico e insieme pratico. Anzitutto è stato riformulato il 41 bis. Il carcere duro, quello che tormenta i boss, è oggi ancora più duro. Il primo periodo di applicazione è stato allungato da uno a quattro anni e le proroghe sono diventate biennali. Non sono dettagli, perché al 41 bis sta tutto il gotha di Cosa nostra, della camorra e della ’ndrangheta. E non è un dettaglio sapere che a partire dal novembre ’93, in un momento drammatico della lotta alle mafie, il governo Ciampi-Conso, sorretto da una maggioranza di centrosinistra, lasciò scadere il 41 bis non per uno ma per ben 334 padrini.
Infine il governo Berlusconi ha cancellato quella vergogna che era il gratuito patrocinio per i boss. I capimafia miliardari spesso e volentieri risultavano nullatenenti e beffavano le istituzioni ottenendo l’avvocato gratis.

Nessuno era mai intervenuto e invece nel 2008 la legge è stata modificata: si è introdotta una sorta di presunzione giuridica del reddito per i mafiosi. E, secondo Alfano, lo Stato ha risparmiato almeno 6 milioni di euro nel triennio 2008-2010. La Corte costituzionale ha in parte smontato la legge. Ma questa è un’altra storia.

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