BRENNAN L’arte di essere fuori posto

Esce «La visitatrice», unico romanzo dell’autrice irlandese morta nel 1993. Un talento letterario confinato nel giornalismo

Le storie della letteratura di lingua inglese dovranno emendarsi di un’omissione, peraltro incolpevole. È stato solo qualche anno fa che, passando al vaglio il lascito archivistico di una piccola casa editrice newyorkese, qualcuno ha posato gli occhi sul dattiloscritto di un breve romanzo inedito, un gioiellino sperduto fra le scartoffie e rimasto lì per oltre mezzo secolo. È La visitatrice di Maeve Brennan, ora pubblicato anche in Italia (Rizzoli, pagg. 110, euro 7,20, con una prefazione di Paula Fox, scritta appositamente per questa edizione).
La bellissima e sventurata Brennan non era una sconosciuta al mondo letterario americano, o meglio ai seguaci del giornalismo colto, essendo stata per trent’anni una collaboratrice del New Yorker, dove pubblicava regolarmente i suoi racconti, confluiti anche, e integrati, in due raccolte pubblicate tra la fine degli anni Sessanta e la metà dei Settanta. Ma tutto ciò non aveva lasciato tracce nei repertori critici e nei manuali. Con La visitatrice, operina isolata, magica per la sua carica ipnotica e per una commistione di lucida crudeltà e tenerezza dell’osservazione che rimandano talvolta alla Dickinson e alla Woolf, occorrerà ripensare alla figura complessiva della Brennan, destinata forse a trovare un suo posto tra i migliori scrittori di narrativa breve.
C’è da chiedersi quanto abbia nuociuto a uno sviluppo creativo più duraturo e coerente la sensibilità come ferita e l’equilibrio vacillante di questa donna speciale, quanto siano state ininfluenti, o negative, certe circostanze di vita che apparentemente avrebbero dovuto facilitarle la strada per essere protagonista di una letteratura emigré alla rovescia, una scrittrice che, dall’Europa, va a realizzarsi, ad allargare i suoi orizzonti, in America, anziché viceversa. Nata a Dublino nel 1917, trasferitasi a diciassette anni a Washington dove suo padre è stato nominato ambasciatore della nuova Repubblica, completati sbrigativamente gli studi, a poco più di vent’anni, irrequieta, butta per così dire il cuore oltre l’ostacolo, e si trasferisce, sola, a Manhattan. Si impiega presso la New York Public Library, comincia a pubblicare su Harper’s Bazar, diventa, con le sue camicette semplici, il collo svettante, i capelli tirati su e il nasino dritto, una donna corteggiata e piena di amici. Eppure, la sua eleganza, il suo piccolo esibizionismo da attrice, nascondevano forse una vaga e oscura nostalgia, quell’ombra dell’animo che Joseph Conrad attribuiva alla displaced person, a chi è fuori del proprio posto, fuori baricentro.
Anche Anastasia, la protagonista de La visitatrice, pare una displaced person. Ha ventidue anni, è sola, ed è tornata nella Dublino della sua infanzia, nella sua vecchia casa dove abita la vecchia nonna paterna, la signora King, l’unica parente che le sia rimasta, e che l’accoglie come un’ospite, come una visitatrice. La signora King, seguita dalla fedele domestica Katharine, conduce una vita solitaria, consacrata all’ossessiva memoria del figlio, della cui morte incolpa in cuor suo la nuora e la nipote che sei anni prima l’avevano abbandonato. Infatti, la madre di Anastasia, per sfuggire a un matrimonio disgraziato, era andata a vivere a Parigi, e da lì aveva presto chiamato a raggiungerla la figlia sedicenne. Ora che anche la madre è morta, Anastasia non sa più chi è e cosa deve fare. «Non puoi restare qui», le dice con freddezza la nonna, «ho intenzione di essere molto pratica con te».
Nella battaglia dei sentimenti che s’instaura, il gioco delle parti sembra montare drammaticamente su se stesso, per essere smentito di continuo da sfumature di comportamento sottili e contraddittorie. Ma, tra molte portate di tè, e ventose serate di pioggia in cui si può solo osservare dalla finestra un tralcio pendente d’edera che pare voler bussare sul vetro, Anastasia si rende conto che le sue richieste d’amore e d’accoglienza sono destinate a rimanere senz’esito, vede «il miserevole cancello della sua sconfitta già aperto», e capisce che dovrà andarsene.
La stesura de La visitatrice è databile alla metà degli anni Quaranta, quando la Brennan sta affermandosi a New York, e per diventare un personaggio. Niente farebbe pensare a un sofferto «dislocamento» geografico o mentale, all’amarezza d’affetti depositata in queste pagine (e in altri sparsi racconti «dublinesi»). Chiamata nel ’50 a collaborare al New Yorker, sposata per qualche anno a un modesto scrittore con cui fu indotta a consumare una quantità incommensurabile di alcolici, chissà per quale scarto del cuore, per quale maschera necessaria, la Brennan riuscì a essere la brillante titolare della rubrica più in vista del New Yorker, cioè «The Talk of the Town», trascurando forse la linea aperta con La visitatrice.
Ma la dissociazione, prima o poi, esige il suo scotto.

Nel caso di Maeve Brennan, si tradusse in un crescente sbandamento, nella fondamentale solitudine, nel trasferimento da una stanza d’albergo a un’altra, nell’alternanza di momenti di prostrazione profonda a momenti di attività ancora intensa. Dopo aver trascorso alcuni anni in una clinica per malattie mentali, morì, sola, nel 1993.

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