Washington - C’erano due spettatori particolarmente «interessanti» (e interessati) nell’aula del Congresso ricolma di deputati e senatori convenuti per ascoltare l’ultimo discorso di George Bush sullo stato dell’Unione: Hillary Clinton e Barack Obama. Un altro spettatore interessato era rimasto sotto il sole della Florida, dove oltre quattro milioni di elettori - una cifra record - stavano affluendo alle urne. Quel John McCain, unico forte concorrente alla nomination repubblicana, rivale e poi critico di Bush, ma che oggi appare il più qualificato a preservare la parte migliore della sua eredità. O per lo meno il suo sogno in politica estera: quello di una «rivoluzione democratica» nel Medio Oriente e nelle altre aree calde del mondo, quelle da cui proviene una latente minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti.
Una rivendicazione che Bush ha fatto in toni convinti ma meno trionfalistici che nelle sue abitudini, tranne l’orgoglioso riferimento all’«operazione surge» in Irak, «che ha ottenuto risultati che pochi di noi potevano immaginare un anno fa», e che è diventata anche l’asso nella manica di McCain negli ultimi dibattiti con i rivali di partito; ma anche riferimenti allarmati alla possibilità che si renda necessario un intervento diretto di truppe americane nel Pakistan per riprendere la caccia a Osama Bin Laden e prevenire una nuova «offensiva mondiale del terrorismo».
La platea parlamentare, tuttavia, aveva altre priorità e Bush ne ha tenuto conto. La crisi finanziaria e la possibile recessione economica dominano in questi giorni il pensiero degli elettori americani e il presidente ne ha riconosciuto la gravità: «Lo vediamo tutti che la crescita economica ha rallentato» includendo il tumulto nell’edilizia e sui mercati finanziari, la disoccupazione che comincia a salire, l’attesa di immediati aumenti di prezzo degli alimentari e della benzina. Ha potuto farlo perché ha già reagito proponendo una legislazione di emergenza cui il Congresso a maggioranza democratica non ha potuto dire di no, una distribuzione «a pioggia» di riduzioni fiscali per 117 milioni di famiglie e contemporaneamente per le aziende. Nessun candidato, alla Camera, al Senato o alla presidenza, può dire no all’idea del governo che spedisce assegni ai cittadini. Di conseguenza, anche se gli applausi sono stati meno calorosi che in altre occasioni, anche le critiche sono state più contenute, comprese quelle dei due ospiti illustri e «pericolosi», Barack e Hillary.
Il messaggio sullo stato dell’Unione non dovrebbe naturalmente avere alcun collegamento con una campagna elettorale in corso. Quando è poi l’ultimo di una presidenza la campagna viene messa da parte e l’uomo della Casa Bianca preferisce dettare un catalogo dell’eredità che lascia più che una agenda di progetti per il futuro. Ci sono però eccezioni, cui Bush ha cercato di collegarsi: in particolare l’ultimo indirizzo di Ronald Reagan nel 1988: «Se qualcuno si aspetta da me una orgogliosa recitazione dei successi della mia amministrazione, io gli dico che è meglio lasciare questo alla storia, perché abbiamo ancora da lavorare». Neanche Reagan era al massimo della sua popolarità nel gennaio 1988.
I suoi più grandi successi, anzi, stavano per arrivare, ma la situazione di Bush è molto più difficile: al momento in cui è salito sul podio avendo alle spalle il vicepresidente Dick Cheney e la presidente (democratica) della Camera Nancy Pelosi, egli era «sorretto» dal più basso indice di gradimento della sua carriera, con la fiducia del 34% degli americani.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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