da Washington
È stato un duro colpo per la strategia di Washington nel Pakistan e dintorni, lanticipazione dei peggiori timori. Soprattutto per questo le prime reazioni della Superpotenza sono pronte ma in genere caute; consce comunque della gravità del momento. Lo dimostrano soprattutto due iniziative: il Pentagono si è precipitato a rassicurare lopinione pubblica che, quale che sia la situazione politica a Islamabad, larsenale nucleare pakistano «è saldamente sotto il controllo dei militari». E il dipartimento di Stato ha dato disposizioni allambasciata di prendere subito contatto con il leader superstite dellopposizione pakistana, Nawaz Sharif. Non è un passo da poco se si tiene presente che Sharif, lex primo ministro deposto dal golpe di Musharraf, è il leader della Lega Musulmana, un partito vicino agli ambienti religiosi tradizionalisti e in molti casi integralisti. Non era certo lui luomo su cui Washington puntava per un ricambio in Pakistan, ma cè rimasto solo lui e per di più, subito dopo lassassinio di Benazir Bhutto, egli ha manifestato lintenzione di ritirare il suo partito dalle elezioni parlamentari in calendario per l8 gennaio e ha invitato i suoi potenziali elettori a boicottarle. Una decisione che avrebbe gravi conseguenze perché ridurrebbe lauspicato voto a un successo dei candidati più legati al presidente Musharraf, che è stato sì l«uomo dellAmerica» nellultimo decennio, ma che gli Stati Uniti desiderano che si ritiri nellombra per preparare una successione democratica: in questo caso un «cambio di regime».
Non è un mistero per nessuno che il candidato preferito da Washington come primo ministro era Benazir Bhutto, contro cui anche per questo si era scatenato lodio degli integralisti, che laccusavano di essere la «quinta colonna di Washington», strumento per «consegnare il Pakistan agli americani».
Una volta di più si è riproposto il dilemma: nel Medio Oriente più un leader politico è gradito allOccidente, più rischi corre: di essere sconfitto nelle urne, travolto sulle piazze o, come era già accaduto in altre occasioni, eliminato fisicamente. Questa volta è toccato alla Bhutto, e Washington deve decidere in fretta non solo chi appoggiare, ma se vuole che le elezioni si facciano adesso o se non convenga rinviarle. La prima reazione di Bush, a caldo, comprende un invito pressante a Musharraf a continuare sulla strada intrapresa e a rispettare gli impegni, cioè ad assicurare che le elezioni si faranno. Importanti esperti in Congresso, invece, invitano la Casa Bianca a sospendere tutto, compresi gli aiuti militari al Pakistan, e consigliare il rinvio della consultazione elettorale fino a quando non ci saranno garanzie che oggi mancano. Ma il problema oggi è lestensione delle attività politiche e militari in Pakistan dei talebani e di Al Qaida, che le forze armate regolari non contrastano con sufficiente determinazione. Il baricentro della «guerra al terrore» si sposta di nuovo: guerriglieri e terroristi da tempo hanno cominciato a trasferirsi dallIrak in Afghanistan (il che spiega la «quiete» attuale a Bagdad e dintorni) assumendo dimensioni incomparabili. Nel Paese che ha «creato» i talebani prima di esportarli a Kabul, in un Paese di 140 milioni di abitanti, in un Paese dotato di armi nucleari e quindi più pericoloso di quanto non sia stato lIrak e sia oggi lIran.
Lo shock si è subito ripercosso nella campagna elettorale americana, a pochi giorni dal primo test in Iowa, presumibilmente a vantaggio dei candidati più «falchi», dunque di Rudolph Giuliani, che potrebbe così arrestare la sua caduta nei consensi, e soprattutto di John McCain, che invece era già in ascesa. Gli ultimi interventi dei due sono stati dedicati quasi interamente alla «guerra al terrore» e allaccostamento fino allidentificazione dellassassinio di Benazir Bhutto con la strage a New York di sei anni fa.
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