Le viti non le coltiva, ma produce ottimi vini. I giornali non li edita, ma li legge dal primo all'ultimo. E non è una persona famosissima, ma quelli davvero famosi li conosce tutti. La massima della vita di Giancarlo Aneri - imprenditore, fondatore del premio «èGiornalismo» e amico dei Signori della politica, dello sport e dello spettacolo - è semplice: «Se vuoi ottenere il risultato devi proporre cose di qualità». E lui, che ha sempre usato se stesso come il miglior biglietto da visita per i suoi vini, si propone benissimo.
Persuasore affabile, affabulatore irresistibile, furbo, homme du monde, abiti di sartoria, solo cravatte Hèrmes, sorriso suadente, gentile ma non affettato, una capacità fuori dal comune nel riuscire a sedersi a tavola - sulla quale si servono rigorosamente i suoi vini - con la politica, il lusso, gli affari e il potere, Giancarlo Aneri è un serpente incantatore. Quando lui comincia a parlare ti chiedi «Ma cosa vuole questo qui»?, e quando ha finito: «Perché gli ho detto di sì?». È un manager, un imprenditore, ma soprattutto un uomo di pubbliche relazioni. Sulla camicia invece che le cifre G.A. dovrebbe farsi ricamare P.R.
Aneri è della schiatta dei Malagò, dei Montezemolo, dei Tronchetti: di quelli che con l'eleganza, l'intelligenza e un po' di ruffianeria arrivano dappertutto. Si chiama «stile italiano». Esempi: anni Ottanta, neppure trentenne, giovane dirigente delle Cantine Ferrari di Trento, Aneri riuscì a farsi ricevere dall'altro Ferrari, Enzo, il Drake, e lo convinse a brindare alle vittorie della scuderia, sul podio, in diretta tv mondiale, con lo spumante Ferrari e non con lo champagne. Nell'87, prima della caduta del Muro, a Mosca, dentro l'hotel Mezhdunarodnaya, aprì il primo locale straniero, l'Hostaria Ferrari. Poi, quando si mise in proprio, e nacque la «Vini Aneri», riuscì - misteri delle relazioni internazionali e miracoli del vino italiano - a far servire il suo Prosecco e l'Amarone - photo opportunity e pubblicità globale a costo zero - a Reagan, Bush (padre e figlio), Clinton, Obama e a consegnare a Donald Trump, appena eletto presidente, tre magnum di Amarone alla Trump Tower a New York col biglietto di Auguri. Well done.
Le sue etichette sono finite sulla tavola degli Otto Grandi al Vertice dell'Aquila nel 2009, su quella dei Leader al G20 di Roma nel 2021, al rinfresco per l'insediamento al Quirinale di Napolitano e Ciampi, e al banchetto di gala che seguì la firma della Costituzione europea, nel 2004, a Roma. Che storie... Come da titolo della sua (auto)biografia scritta con Gabriele Tacchini e prodotta in proprio come i suoi vini, È una storia italiana (Aneri edizioni). «Appunti di un lungo viaggio», è il sottotitolo, iniziato ormai settantacinque anni fa, e che scorre ancora che è un piacere, come il suo Prosecco. E l'apparato fotografico del libro, che è il marketing, sembra addirittura superare il prodotto, che è la vita di Aneri. Giancarlo Aneri che brinda con Ted Kennedy; lui e la Thatcher in bianco e nero con Bettino Craxi; a un party in smoking e calice con Gregory Peck, Roger Moore e signore; con Audrey Hepburn (come erano giovani...), mancano le foto in cui fa brindare anche il Papa e Pertini, ma ci sono quelle con Ugo Tognazzi, Ottavio Missoni, Roberto Bettega e Gilles Villeneuve. Eccolo a tavola con Luciano Pavarotti a New York; con gli Agnelli (ah, Aneri è juventinissimo dall'età di sette anni, prima ancora che a undici iniziasse a comprare i quotidiani nell'edicola del paese); con Mario Draghi governatore della Banca d'Italia, col Nobel Carlo Rubbia. Poi ci sono le foto del brindisi per l'uscita del primo numero del quotidiano La Voce assieme a Indro Montanelli e Mario Cervi, quelle a cena con Scalfari e Biagi e - a proposito di grande stampa - l'intera galleria fotografia dei vincitori del premio «èGiornalismo» che Giancarlo Aneri, bevitore parsimonioso e lettore smodato, ha fondato nel 1995, sorta di Joseph Pulitzer italiano, scegliendo come giuria unica e insindacabile la trimurti della macchina per scrivere Montanelli-Biagi-Bocca, e che impresa farli sedere insieme. Per anni ha radunato a Milano direttori, editori, grandi penne e mondanità per la cerimonia di consegna del sostanzioso assegno e della lettera con le motivazioni (in cinico ordine di importanza) all'hotel Principe di Savoia.
Da allora il premio ha cambiato la giuria, causa impegni improrogabili dei tre maestri; a parte Sergio Romano ha continuato a premiare solo giornalisti di sinistra (può succedere...), e attualmente è in stand by.
Chi non si ferma mai, è lui. Da Legnago, Verona, a est del profondo nord, una base a Milano, l'azienda in Veneto, come casa il mondo che gira per promuovere i suoi vini, vacanze al Forte e una vita al lavoro, oggi Giancarlo Aneri - il quale ha in Stefano Lorenzetto il suo intervistatore primo e princeps e ama definirsi con un certo snobismo «giornalista mancato e imprenditore di discreto successo» - produce Prosecco (tre vigneti hanno il nome delle nipotine), Amarone, due Pinot - Pinot bianco Leda dal nome della moglie e Pinot nero Ale in onore del figlio Alessandro - e un Lambrusco. E senza mai smettere di leggere ogni mattina per un paio d'ore i giornali di tutto l'arco costituzionale, dal Fatto quotidiano (una volta l'Unità) a Libero. Inizia col Corriere della sera, per abitudine, e si sofferma sul Giornale, per affetto al vecchio amico Indro. A volte, finito un pezzo particolarmente bello, manda un whatsapp di complimenti alla firma: ha i numeri di telefono di tutti, e non si sa come.
Quello che sa - da uomo di relazioni - è che i giornalisti
sono la porta di ingresso di tanti salotti, o almeno un tempo lo erano, e oggi - dato che a Natale magari ricevono in regalo una cassa di Prosecco o una sontuosa bottiglia di Amarone - piace loro credere che lo siano ancora.
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