Quanto sono lunghi nove secondi e sessantanove centesimi? Abbastanza per alzare la testa, lanciare lo sguardo a destra e sinistra, allargare le braccia, battere la mano aperta sul petto e sussurrare «sono il più forte». Se lo chiedi a Usain Bolt ti dice che 9’69” sono cento metri, l’oro olimpico e i passi dell’uomo più veloce del mondo. Ma se lo chiedi ai miliardi di occhi che hanno visto un uomo correre con le scarpe slacciate come se il tempo, all’improvviso, rallentasse, quei nove secondi e sessantanove centesimi possono essere tutto. Sono una corsetta sulla spiaggia senza neppure troppo sudare, la conferma che la teoria di Einstein sulla relatività esiste, una brezza di mezz’agosto, un numero magico del Talmud che gioca con i multipli del tre o semplicemente tre sei di cui il secondo capovolto. Qualcuno a Pechino dice che sono l’inizio di una nuova era, quella dei post-umani.
Sta accadendo qualcosa di strano in questa Olimpiade che sembra aver proiettato l’uomo in una sorta di tunnel spazio-temporale, un universo parallelo dove regna gente dai volti tutti uguali, un regime che sembra un film di fantascienza in cui passato e futuro si inseguono. Un posto dove per manifestare il proprio pensiero c’è bisogno di un permesso speciale, una patente burocratica che certifica chi, come, dove, perché e con quali parole protestare. E in questa terra siderale delimitata da una grande muraglia, segno di un’antica civiltà, appare una nuova specie di umani, che rende facile ciò che per noi, prototipi obsoleti di un vecchio dna, è pressoché impensabile. Non sai in quale epoca sei capitato, se l’orizzonte del prossimo futuro o in un remoto passato. Quando Omero vide correre il piè veloce Achille o l’arco teso di Odisseo e la forza sovrumana di Aiace deve aver provato qualcosa del genere e li chiamò eroi, semidei, l’anello di congiunzione tra la terra e il cielo. Vide, forse, le sette fatiche di Michael Phelps, il suo ultimo tocco nei 100 farfalla, un’impercettibile carezza sulla mattonella d’arrivo, un gesto che anticipa di un centesimo di secondo il suo avversario. E capì che anche gli eroi, quando sono ormai stanchi e sfibrati, trovano nel cuore quell’attimo di disperazione che fa invidia agli dei. Phelps pensava di aver perso e di aver bruciato in una frazione di secondo tutte le sue imprese. Lo sapeva e ha tremato, perché quelli come lui non possono fermarsi alla penultima stazione. E invece come Spitz, più di Spitz, ha gareggiato mattina e sera, in batteria, semifinali e finali, sette per sette per sette, vincendo sempre. Fino a scandire il ritmo di questa Pechino sovrumana, prima in acqua e ora in terra.
I cento metri piani fanno ancora più paura. Sono la gara regina della regina olimpica. È qui che il tempo lascia le orme e diventa storia. Leggi i cento metri e vedi le ere che cambiano. È Jesse Owens, il figlio del vento, che nella Berlino nazista del ’36 schiaffeggia la volontà di potenza ariana e manda in frantumi le teorie sulla razza. È qui, sui cento, che cade il primo tentativo di uomo di ergersi a superuomo, quella volta con la chimica e le iniezioni di doping, con il pianto di Ben Johnson a Seul. Anche lui giamaicano, ma con bandiera canadese. Lui che batte un dio chiamato Lewis, ma con il trucco nel serbatoio. Ma questa non dovrebbe essere la storia di Bolt.
Usain la saetta, come suggerisce il cognome, sa chi è e sapeva di vincere. Quando gli chiedono come si fa risponde: «Basta essere sereni. Sono venuto qui per fare questa gara e l’ho fatta». Come per gli altri bere un caffè. Bolt avrà 22 anni tra pochi giorni, viene dalla Giamaica e da ragazzino lavorava in una piantagione di caffè. È da allora che non lo beve. Lo odia. Il suo sogno era diventare campione di cricket (è ancora tesserato per il West Indies Cricket di Trelawny), poi durante una gara scolastica qualcuno lo vide correre e disse: è un quattrocentista perfetto. Troppo facile. Meglio i 100, dove mai nessuno ha visto sfrecciare un tipo alto 196 centimetri, con un passo da ghepardo. Quando il rivale Tyson Gay lo incrociò in pista restò di pietra. «Credevo di avere il suo stesso ritmo, ma il problema è la falcata. La sua è molto più lunga, copre più terreno».
Vittorio Macioce
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