Cadono pure i feudi del Nord industriale

Hai voglia, da ieri, a percorrere in lungo e in largo il Nord alla ricerca di quel che resta del Pd. Dal Piemonte al Friuli, passando per la Liguria, sono soltanto cocci, quelli che trovi. Perché qui, nell’Italia delle imprese e delle partite Iva, l’erede dell’ex Partitone, o meglio il suo figliol prodigo - sprecone di voti e di consensi - è di fatto missing, scomparso. Fa così sorridere l’insistenza di Dario Franceschini nel dichiarare «abbiamo ottenuto la conferma del nostro progetto». E se mai l’avessero mancata?
Resta da chiedersi il perché di una simile débâcle. E perché sia stata proprio la zona più produttiva del Paese, nel suo insieme, a dare lo sfratto al Pd anche dalle sue più coriacee rendite di posizione. Perché tali erano, mantenute a forza di inerzia. Per esempio le Province di Piacenza, Cremona, Lecco, Lodi, Novara e Biella, un tempo inviolate roccheforti, cadute ora alla bordata del primo turno. O quella di Venezia, dove la candidata del centrodestra, Francesca Zaccariotto, va al ballottaggio forte di quasi 10 punti di vantaggio sul candidato del Pd e trascinando il suo schieramento a uno sbalorditivo 36,16% perfino nell’enclave bulgara di Porto Marghera.
E poi c’è il Piemonte «violato» da una Lega al 15,7%. Lì il Pd lascia nella sola Torino il 9% in un anno, sentendo ormai sul collo, a un soffio (appena un 1,3%), il fiato di Silvio Berlusconi. Per non dire della totale sparizione di amministrazioni di sinistra dalla cartina della Lombardia, dove un Pd battuto 6 a zero è costretto a fregiarsi di quella che di fatto è già una sconfitta - il ballottaggio alla Provincia di Milano, a 10 punti dal candidato del centrodestra - per non dover ammettere l’en plein regionale degli avversari.
Sarebbe bastato un minimo di memoria. E nemmeno storica. Era sufficiente andare indietro all’aprile 2008, quando i 23mila abitanti di Orbassano, anello della cintura operaia torinese, storicamente rossa, elessero un sindaco del Pdl, Eugenio Gambetta, con un sonoro 58,63% contro il 41,37% del Pd. Folgorati anche loro, gli orbassanesi, sulla via di Arcore. Come peraltro alle politiche dello stesso anno i cittadini di Sesto San Giovanni, l’ex Stalingrado d’Italia. Entrambi campanelli d’allarme - e se ne potrebbero citare altri - che non sono stati uditi né nel loft del Pd, né tra i divani dei salotti dove sono soliti adagiarsi i suoi esponenti.
Che non hanno così compreso la portata della rivoluzione sociale, economica e politica in atto già da tempo nel Nord produttivo, in primis in quel Nordest da loro sempre ignorato e vituperato. Basti dire che la stragrande maggioranza dell’imprenditoria veneta è composta da ex dipendenti, il che ha di fatto svuotato nel tempo il concetto stesso di classi e quindi la conflittualità sindacale. Da quelle parti, insomma, la «barca» viene vissuta come una sola, perché ci stanno a bordo tutti insieme. Un modo di ragionare che via via ha contagiato tutto il Nord.
La Lega ha avuto il merito di capirlo per prima. E ora se la ride quando c’è chi pensa di offenderla liquidando la sua forza come un «saper parlare solo alla pancia della gente». Mentre altro non è se non comprendere e rispettare quella «cultura identitaria» che il vecchio leone Umberto Bossi, a pugno alzato e con voce roca, non si stanca mai di invocare. Non a caso, e il recente voto lo ha dimostrato, il «contagio» nordista sta già varcando il Po e toccando addirittura sacrari inviolabili della sinistra, come Modena e Reggio, e più giù perfino in Umbria e nelle Marche. Ovvero laddove, guarda caso, esiste un altrettanto diffuso e operoso tessuto imprenditoriale nato e cresciuto dal basso.

Altri pezzi d’Italia dove le leggi vigenti sono sempre più quelle della concorrenza e del mercato, e dove di conseguenza c’è sempre meno spazio per chi pensa ancora di poter vivere di rendita di posizione. Come ha fatto il Pd.

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