Questo libro svelto, di facile gustoso consumo, mi ricorda la vecchia réclame del doppio brodo Star. Compri uno, ma in quel dado ci sono succhi e profumi che ne valgono due. Così questa biografia in forma di colloquio ha - come si usa dire adesso - un uso duale. Scritta con mano felice da Federico Bini, racconta sì la vita di Giancarlo Mazzuca, le sue peripezie di giornalista economico a contatto con i grandi capitalisti italiani, e in seguito direttore di testate importanti, ma è come un boero natalizio: fuori il cioccolato (la biografia), dentro la ciliegia con un po' di liquore che suscita la nostalgia (la storia del giornalismo italiano dell'ultimo mezzo secolo, vissuto con lo sguardo dei suoi maggiori protagonisti). Non mi azzardo a rovinare il piacere del lettore anticipando qui gli aneddoti e le battute di cui il volume è ricco: riportandoli, oltretutto di seconda mano, ne spegnerei la fragranza. Mi interessa far notare il tono di Mazzuca, che in questo mondo di pescecani è uguale al suo soprannome: il Cagnone, non solo perché simpaticamente grosso di fisico, ma perché ispira l'idea dell'amicizia benevola, dell'accoglienza scaldata dal focolare della familiarità. Così il suo racconto di giornalista al Resto del Carlino e poi al Corriere della Sera non ha mai punte di malizia personalistiche, non conosce rancore e neppure invidia; ha una imparzialità nel guardare alle vicende proprie e altrui che non è asettico distacco ma empatia con chiunque abbia seguito come direttore o avuto come compagno di scrivania, senza che la narrazione diventi mai zuccherosa. Identifica alcuni maestri, in particolare indica Indro Montanelli e Giuseppe Prezzolini. Il ritratto che ne fornisce è esemplare. Loro toscani (ma Giuseppe era nato a Perugia), lui romagnolo, ne dipinge i guizzi di genio, le sindromi, l'anarchia conservatrice. A proposito di Indro, da lui chiamato Cilindro, il Cagnone ricorda il girovagare insieme per l'Italia a presentare La Voce. Mazzuca, nelle vesti di vicedirettore, accompagnò in questa avventura Montanelli che prima lo aveva voluto al Giornale. Finalmente ho trovato uno che c'era e la racconta giusta: mai ci fu mancanza di rispetto o venir meno della stima tra il Maestro di Fucecchio e il Garzone Orobico, cioè il sottoscritto. La partita, che secondo i pronostici degli esperti di giornalismo era destinata alla mia sconfitta con relativa chiusura del Giornale, fu amara per Montanelli ma appassionante. La Voce esordì nella primavera del 1994 e vendette mezzo milione di copie. Indro, testimonia il Cagnone, era convinto di portarsi dietro dal Giornale almeno 150 mila lettori. Non accadde. La Voce precipitò e fallì, il Giornale raddoppiò, anzi di più, passando da 112 mila copie a 260 mila. Mazzuca mi dà molti meriti, e non rifiuto certo l'elogio di uno che se ne intende. Di sicuro l'errore clamoroso di Indro, cui lo indusse Paolo Mieli invitandolo alla festa dell'Unità con Walter Veltroni, fu di accettare lo scontato abbraccio dei comunisti in chiave antiberlusconiana. Questo gli valse gloria imperitura persino da morto anche tra chi lo avrebbe impiccato solo qualche anno prima. Il colmo: capitava di essere pitturato di rosso proprio a lui che teneva il capoccione di Stalin sulla scrivania di via Negri per onorarlo in quanto uomo che nella storia aveva ammazzato più comunisti... A proposito di Cagnone.
Quando Andrea Riffeser mi affidò la direzione del Quotidiano Nazionale a Bologna ritrovai come vice Mazzuca, che indossava benissimo il citato soprannome. Io ne coniai un altro: Orso Yoghi, simpatico, gioviale, leale. E - sotto l'apparente candore - una gran furbizia da navigatore dei sette mari.
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