Di Stefano, il Real dei record e il tabù Mondiale: il calcio nella Spagna di Franco

Il Real Madrid delle cinque Coppe dei Campioni fu sfruttato dalla propaganda di Franco ma la Spagna riuscì a vincere il suo primo grande torneo (l'Europeo) solo dopo il suo tramonto

1962: Alfredo Di Stefano in azione con la classica divisa bianca del Real Madrid
1962: Alfredo Di Stefano in azione con la classica divisa bianca del Real Madrid

Madrid, 21 giugno 1964: la Nazionale di calcio della Spagna batte 2-1 i campioni in carica dell'Unione Sovietica nella finale del secondo campionato europeo di calcio e vince quello che resterà fino al 2008 l'unico titolo delle "Furie Rosse". A livello di Nazionale è il momento più alto del calcio nell'era del regime di Francisco Franco, al potere dalla vittoria nella guerra civile nel 1939 fino alla morte nel 1975, che sulla scia di quanto fatto dall'Italia fascista capì l'importanza di utilizzare a fini propagandistici lo sport più popolare nel Paese.

L'unico acuto della nazionale di Franco

La Spagna del 1964 è però la meno "franchista" che si possa immaginare. Del Real Madrid, tra le squadre favorite dal regime, non ci sono più le bandiere che avevano costruito l'ossatura della formazione regina d'Europa negli Anni Sessanta. Resta solo l'asso della nuova leva, Amancio Amaro, che nel derby tra la Spagna cattolicissima, reazionaria e nazionalista e l'Urss comunista, atea e materialista è più in ombra rispetto alla semifinale con l'Ungheria. Della Spagna profonda, roccaforte franchista resta la nuova leva del Real Saragozza: Marcelino Martinez, attaccante dalle gambe fragili che gli infortuni faranno ritirare a soli 30 anni nel 1970, decide il match, e il talentuoso Carlos Lapetra. Il portiere è un basco antifranchista, Jose Angel Iribar, bandiera dell'Atlethic Bilbao. La stella Luis Suarez, fantasista in forza all'Inter con cui si è appena laureato campione d'Europa travolgendo 3-1 a Vienna proprio il Real Madrid.

Suarez è un catalano, proveniente da quel Barcellona che all'Europeo schiera in nazionale Ferran Olivella, difensore e capitano, Jesus Maria Perreda, ala e autore del gol che apre la sfida coi sovietici, e il roccioso centrocampista José Maria Fusté.

Ai tempi la Spagna come "progetto" calcistico di Franco era radicalmente diverse dalle aspettative del Caudillo. E tale sarebbe restata fino alla fine del regime.

Il Real, la squadra preferita di Franco

Per uno strano crocevia della storia, a Franco fece gioco l'epopea delle vittorie europee del Real Madrid di Santiago Bernabeu, ad oggi con Silvio Berlusconi il presidente più vincente della storia del calcio europeo (29 trofei a testa per i due) ma mancò sempre l'acuto al Mondiale, l'occasione pubblica a cui maggiormente il regime teneva. Quarta e ultima nel girone finale del 1950, mai la nazionale spagnola dell'era Franco ripeté tale risultato: non si qualificò nel 1954, nel 1958, nel nel 1970 e nel 1974 e uscì al primo turno in Cile nel 1962 e in Inghilterra nel 1966. Perdendo dunque il treno giusto negli anni in cui il simbolo del calcio del Paese era il Real Madrid "invincibile" guidato dall'uomo che Franco considerava il simbolo del mondo del apllone nazionale: Alfredo Di Stefano.

Il Real guidato da Di Stefano, giunto in Spagna dopo aver giocato nel River Plate argentino e nei Millionarios colombiani, dalla leggenda ungherese Ferenc Puskas, "defezionista" dopo la Rivoluzione ungherese del 1956 e dallo spagnolissimo Gento vinse le prime cinque edizioni della Coppa dei Campioni dal 1956 al 1960, giocando inoltre due finali nel 1962 e nel 1964, perdendole contro Benfica e Inter. Gli eredi della squadra d'oro di Bernabeu vinsero la loro sesta coppa nel 1966 battendo in finale gli jugoslavi del Partizan Belgrado. Il Real era funzionale al regime all'esterno, così come l'altra compagine cittadina, l'Atletico, lo era stata negli Anni Quaranta e Cinquanta come squadra legata all'Aviazione nazionalsita.

"Il regime di Franco, anche se principalmente rivolto verso la nazione, si preoccupava molto di come veniva percepito dal resto d’Europa", nota il portale Per Sempre Calcio. "Il Real Madrid era lo strumento di propaganda perfetto, veicolando un’idea di una Spagna ricca, felice e unita, cosa che chiaramente cozzava con la realtà. In secondo luogo, il suo manifesto sostegno al Real Madrid poteva essere utilizzato implicitamente da Franco come una critica alla Catalogna e ai Paesi Baschi, aree che utilizzavano il calcio come mezzo per esprimere la loro identità culturale e linguistica e la loro insoddisfazione nei confronti del regime". Un regime che nel 1953 facilitò l'arrivo di Di Stefano al Real Madrid e spinsero affinché il fu argentino e colombiano divenisse l'asso della Spagna che sognava un acuto mondiale.

Di Stefano e quel Mondiale mai giocato con la Spagna

Beffardamente, Di Stefano e i fuoriclasse del Real Madrid padrone del calcio europeo, vincitore nel 1960 della Coppa Intercontinentale contro gli uruguaiani del Penarol, non avrebbero mai giocato un singolo minuto in un Mondiale negli anni del loro fulgore. Se il Grande Torino perito a Superga nel 1949 non ebbe modo di confrontarsi sotto forma di nazionale ai Mondiali 1950 per via di una tragedia, fu un misto di imprevisti e sfortuna a evitare che il grande Real diventasse la base di una nazionale vincente.

Nel 1958, anno della prima assenza dell'Italia eliminata dall'Irlanda del Nord, fu un'altra Home Nation britannica, la Scozia, a bloccare a sorpresa le Furie Rosse battendole 3-2 nella decisiva sfida di Glasgow delle qualificazioni svoltasi il 6 novembre 1957. Quattro anni dopo, qualificatasi dopo un difficile doppio scontro col Marocco sessant'anni prima dei recenti ottavi vinti a sorpresa dai maghrebini, la Spagna uscì nel "girone di ferro" con le future finaliste, Cecoslovacchia e Brasile, che la batterono 1-0 e 2-1, rendendo inutile l'1-0 contro il Messico in una partita decisa dal futuro interista Peirò. Di Stefano era presente a Glasgow nel 1957 ed era convocato nel 1962 da Helenio Herrera, futuro tecnico della Grande Inter, ma non giocò un singolo minuto a causa di un infortunio. A 35 anni Puskas invece scese in campo come naturalizzato nella Spagna, ma fu l'ombra di sé stesso e del campione che nel 1954 aveva incantato con la "Squadra d'Oro" ungherese superata in finale a Berna dalla sola Germania Ovest.

In mezzo, nel 1960, Franco aveva vietato alla Spagna di giocare contro l'Unione Sovietica nei quarti di finale del primo europeo, provocando la sconfitta a tavolino degli iberici che veleggiavano verso la possibilità di conquistare, in anticipo di quattro anni il primo titolo continentale, salvo doversi arenare di fronte alla politica, tredici anni prima che una delle nazionali sovietiche più forti di sempre perdesse la possibilità di giocare il Mondiale per non aver voluto giocare contro il Cile della neonata dittatura di Pinochet. Quattro anni dopo, a Barcellona, l'Urss si presentò regolarmente alla fase finale dell'Europeo e nella "rossa" Barcellona vinse 3-0 contro la Danimarca nelle semifinali per poi perdere a Madrid la finale contro una squadra centrata sull'ossatura del club blaugrana del capoluogo catalano, che proprio nello sport proiettava la sua identità autonomista e finì per regalare a Franco i campioni dell'unico trionfo della "sua" nazionale.

Il calcio di Franco era proiettato sulla Castiglia, non sulle periferie divenute centro grazie agli ottimi risultati del Barcellona e dell'Atlethic (ad oggi, con Barça e Real unica squadra mai retrocessa dal massimo campionato iberico). Al franchismo mancò l'acuto mondiale perché la divisione tra i club favoriva la loro competitività europea ma non la coesione in un gruppo omogeneo nella nazionale di un Paese centralista in cui anche il calcio era fattore identitario.

E sarebbe stata proprio una nazionale blocco Barcellona, nel 2010, trentacinque anni dopo la morte del Caudillo, a dare alle Furie Rosse l'unico mondiale della loro storia nel pieno del secolo d'oro del calcio del Paese. L'eterogenesi dei fini nel mondo del pallone spesso genera, anche a decenni di distanza, esiti dal peso simbolico importante.

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