L'Italia ha vinto due dei suoi quattro Mondiali durante l'era inimitabile del ct Vittorio Pozzo che cadde nel pieno del regime fascista: le Coppe Rimet del 1934 e 1938, tenutesi rispettivamente in Italia e Francia, furono celebrate assieme a altri grandi trionfi sportivi (dalle trasvolate atlantiche ai successi di Primo Carnera nel pugilato e Gino Bartali al Tour de France) nell'ottica della retorica del regime.
Il trionfo dell'Italia dei due Mondiali
Non v'è dubbio del fatto che gli Azzurri di Giuseppe Meazza, Silvio Piola e compagni fossero la nazionale più forte del momento. Nel 1938, in Francia, seppero riscattarsi dalle accuse di un Mondiale pilotato che li aveva accompagnati dopo la vittoria casalinga di quattro anni prima. Accuse capziose dato che l'Italia era stata altresì vincente alle Olimpiadi di Berlino del 1936 e della Coppa Internazionale del 1935, affrontando tutte le principali rappresentative dell'Europa centrale. Inoltre, da campione del mondo in carica, il 14 novembre 1934 aveva combattuto la cosiddetta "Battaglia di Highbury" contro i maestri inglesi, incassando una sconfitta per 3-2 che però ridimensionò di molto il senso di superiorità dei "maestri" d'Oltre Manica, restii fino al 1950 a partecipare alla Coppa Rimet.
L'Italia nel 1934 vinse qualificandosi contro l'Egitto, battendo agli ottavi gli Stati Uniti per 7-1, ai quarti la Spagna del portiere "volante" Zamora per 1-0 nella ripetizione di una partita finita 1-1, in semifinale la grande Austria di Matias Sindelar per 1-0 e in finale, in rimonta, la Cecoslovacchia per 2-1 ai supplementari, col gol decisivo di Angelo Schiavio. Quattro anni dopo, in Francia, iniziò stentatamente battendo i dilettanti della Norvegia solo ai supplementari per 2-1, ma in seguito regolò i padroni di casa per 3-1 e batté 2-1 il Brasile in una semifinale passata alla storia per il rifiuto dei verdeoro di schierare Leonidas, il Pelé dell'epoca, per la certezza di una facile vittoria che imponeva di farlo riposare in vista della finale. Il gol di Gino Colaussi e il rigore di Meazza, fuoriclasse dell'Ambrosiana-Inter, ridimensionarono i brasiliani: porte aperte alla finale di Parigi con l'Ungheria, finita 4-2 con le doppiette dello stesso Colaussi, estroso giocatore della Triestina, e del 25enne Piola, ai tempi in forza alla Lazio.
Due nazionali molto diverse sul tetto del mondo
In due Mondiali l'Italia aveva battuto le tre grandi del calcio danubiano, che sarebbero rimaste incompiute senza Mondiali in bacheca: Austria, Cecoslovacchia, Ungheria. Aveva regolato i verdeoro, la Spagna e la Francia. Aveva sofferto più di ogni altra sfida i "Vichingi" norvegesi, primi underdog della storia del Mondiale. In sostanza aveva fatto piazza pulita della concorrenza presentando squadre profondamente rinnovate. A prendere parte alle due le rassegne erano stati solo Meazza, il centrocampista Giovanni Ferrari e il difensore Eraldo Monzeglio. Oltre, ovviamente al commissario tecnico Vittorio Pozzo.
Il Mondiale del 1934 era stato quello degli oriundi: il mediano Luisito Monti e l'esterno Raimundo Orsi, entrambi della Juventus, si sommavano alla punta della Roma Enrique Guaita e avevano giocato partite eccellenti; quello del 1938 consacrò Silvio Piola, destinato a diventare il più prolifico cannoniere della storia della Serie A e portò al trionfo giocatori provenienti da squadre di secondo piano del campionato, come il triestino Colaussi e Aldo Olivieri, portiere della Lucchese titolare nel 1938.
L'Italia presentava al contempo il Bologna "che tremare il mondo fa" vincitore della Coppa Mitropa, un'antenata mitteleuropea della Coppa dei Campioni, nel 1932 e nel 1934, la Juventus del "Quinquennio d'oro" vincitrice dello scudetto dal 1931 al 1935, un'attrattività per grandi campioni e allenatori provenienti tanto dall'area danubiana quanto dall'Europa centrale, tra cui Arpad Weisz, vincitore dello scudetto 1930 con l'Inter e di quelli 1936 e 1937 con il Bologna, che sarebbe tragicamente morto nel campo di concentramento di Auschwitz nel 1944.
La "guerra" del fascismo per controllare il calcio
Movimento assai eterogeneo e complesso, il calcio fu sfruttato con grande forza dal regime fascista, che puntò su di esso come movimento sportivo di massa capendone l'importanza ai fini del consenso. Il governo Mussolini si impegnò con ingenti risorse: dalla trasmissione delle radiocronache alla costruzione degli stadi. Mussolini comprese il ruolo "politico" del calcio con grande anticipo dei tempi. Del resto, cosa meglio di quella Nazionale, che eseguiva il saluto romano prima delle partite e univa figli della provincia a cavalli di ritorno dell'emigrazione, poteva rappresentare il simbolo di Italia "mondiale" della retorica fascista? Il calcio avrebbe funto da fattore mobilitante anche in assenza di alcun tipo di regime, ma mettendolo in "camicia nera" Mussolini ne sfruttò tutti gli effetti propagandistici pur senza un'adesione ferrea dei componenti della Nazionale.
I calciatori dell'Italia salutavano romanamente per quieto vivere. Pozzo era un ex alpino "che apprezzava i treni in orario ma non sopportava gli squadrismi, che rendeva omaggio al monumento degli alpini ma non ai sacrari fascisti", come lo ricordò Giorgio Bocca. "Non fu antifascista, né mai pretese di esserlo, ma non fu nemmeno banditore troppo strumentalizzato da parte del potere. [...] Forse quello fu l'unico modo per evitare che la sua squadra diventasse la Nazionale di Mussolini", commentò Gianpaolo Ormezzano. In altre parole: il fascismo aveva occupato militarmente il calcio, sulla Figc si era aperto lo scontro tra il gerarca bolognese Leonardo Arpinati e il generale Giorgio Vaccaro, alla guida della federazione nel 1934 e nel 1938 durante le vittoriose corse all'iride, con il segretario generale Ottorino Barassi chiamato a dirimere gli intrecci tra calcio e politica.
"Nulla al mondo di più bello"
Del resto lo stesso Pozzo lasciava ben poco spazio alla retorica di regime laddove si trovava, nell'inedita veste di ct e corrispondente, a commentare per La Stampa da giornalista le dinamiche della sua stessa nazionale. "Non vi è come soddisfazione nulla al mondo di più bello e di più grande del proprio dovere compiuto con successo", scrisse il ct-giornalista su La Stampa del 20 giugno 1938 poco dopo la seconda vittoria al Mondiale. Una cronaca asciutta, da De bello gallico del pallone. E proprio "Nulla al mondo di più bello" si intitola un'interessante pubblicazione del giornalista Enrico Brizzi, che ha studiato la traiettoria del calcio dal 1938 al 1950 in Italia, sottolineando come in questo periodo il pallone entrò nella vita quotidiana degli italiani. "Che giochino col Metodo o col Sistema, all'ungherese o barricati col catenaccio", nota Brizzi, questi campioni "ci appaiono figli di un'Italia ancora giovane, più severa e frugale di come la conosciamo".
Il vero portato dell'Italia dei due Mondiali non è, insomma, lo sfruttamento retorico da parte del fascismo, quanto piuttosto la dimostrazione della profondità sportiva del calcio di altri tempi e della valenza sociale dello sport più popolare al mondo. Capace di unire genuinamente il Paese, con un Meazza o un Piola, più di quanto avessero mai potuto farlo le marce in camicia nera.
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