Ma che succede dentro la Lega? Calderoli che arriva a correggere Bossi, Bossi che torna a tuonare sugli eserciti pronti a calare su Roma e sui ministeri al Nord, i pasticci intorno all’operazione Brancher e alla partita, collegata, dell’Agricoltura, lo scontro tra Lega di governo (con Tremonti) e Lega territoriale (contro Tremonti), il mal di pancia sulla questione quote latte, lo spettro dei poteri forti che vogliono sabotare le riforme del Carroccio. E poi gli indizi di forti spaccature interne, di regolamenti di conti tra correnti avverse, addirittura di veleni sparsi per convincere il capo di un piano ordito alle sue spalle. Insomma, uno scenario inaudito in un partito che si vuole monoblocco, organizzato attorno al leader, disciplinato militarmente e senza divisioni, tutti come un sol uomo. Nella Lega, da qualche tempo, non è più così, e il caos che sta prendendo piede nel Carroccio, anche se custodito come un segreto inconfessabile, comincia a filtrare all’esterno, con delle spie minime ma chiarissime. Come l’intervista di ieri a Calderoli, in cui il ministro spiegava al Corriere che «Bossi sapeva tutto sulla nomina di Brancher», smentendo quindi la ricostruzione di un Bossi ignara vittima dell’operazione-autogol, fatta accreditare anche dentro il partito.
Qualcosa non sta funzionando, e non soltanto nella comunicazione. Dietro lo scollamento e gli scricchiolii interni, raccontano testimoni addentro alle cose padane, si intravede piuttosto un conflitto, latente da mesi ma ora palese, tra due fronti che si contendono la leadership nel partito e la fiducia di Bossi, che poi è ancora quello che comanda. Sì, ma consigliato da chi? I cartografi del movimento disegnano una mappa che ha due «aree di influenza» ben distinte: da una parte quella dei colonnelli, in primis Roberto Calderoli e Giancarlo Giorgetti (più operativi nel partito rispetto a Maroni e Castelli), rispettivamente il referente governativo della Lega (anche a livello territoriale, come coordinatore delle segreterie) e quello economico del partito, competente su tutte le questioni che investono le scelte strategiche della Lega nelle fondazioni, nei Cda delle aziende pubbliche e nei gangli vitali del movimento. Dall’altra, invece, un altro centro di potere interno, che poggia i suoi piedi nella struttura dei due gruppi parlamentari a Roma, con i due capigruppo Marco Reguzzoni e Federico Bricolo, e la «supervisione» di Rosy Mauro, vicepresidente del Senato e storico braccio destro del leader (e si dice anche di un ruolo della moglie di Bossi...). Spesso però le due componenti vanno per conto loro, creando una situazione di confusione e di stallo nel movimento, abituato ad una gerarchia puramente verticale. L’azione parlamentare, per esempio, chi la decide? I colonnelli o i capigruppo? Perché non succede più come prima, quando l’attività era perfettamente coordinata e poi convalidata dal capo? Chi dà la linea, in assenza di un’indicazione da Bossi? Tra i parlamentari il disagio cresce. E non solo lì, racconta uno di loro, ma anche sul territorio, che percepisce la confusione di ruoli ai vertici e, per reazione, tende a bloccarsi (fatto salvo l’iperattivismo dei Giovani padani, un corpo abbastanza a sé stante, però).
L’apice della tensione si è toccato in questi giorni. Nel partito circola una versione, allarmante ma accreditata, sul caso Brancher. Qualcuno, si dice, ha voluto mettere in cattiva luce Roberto Calderoli, cercando di farlo apparire come il regista dell’operazione alle spalle dello stesso Bossi. Una falsità, perché il Senatùr sapeva tutto, com’è naturale in una decisione di quel tipo e come ha spiegato chiaramente anche il ministro della Semplificazione. Però - è sempre la versione interna -, il tentativo di affossare i colonnelli storici c’è, anche perché come nel Pdl si ragiona di un dopo-Silvio, anche nella Lega si immagina un dopo-Umberto.
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