Il canto della città dal Medioevo a Sironi

È la rappresentazione dello spazio urbano la cifra della pittura «moderna». Che raggiunge l’apice nelle prospettive di Piero della Francesca

«Anche ai nostri giorni quando un quotidiano fa un’inchiesta impegnata sul tema delle periferie urbane, una volta su due, a illustrare l’articolo viene scelta la riproduzione di un’opera di Mario Sironi che rappresenta un quartiere industriale di Milano anni Trenta. La poesia e l’intuizione del pittore finiscono per spiegare meglio la realtà di qualsiasi fotografia», così Flavio Caroli, ordinario di storia dell’arte moderna al Politecnico di Milano, introduce questa seconda conversazione sul filone «arte e radici della civiltà occidentale». Il tema di cui si discute è la rappresentazione della città moderna. «Nel mio saggio Tre vie della pittura, ho spiegato come tratti caratteristici dell’arte occidentale, quelli che la distinguono dalle altre grandi civiltà, da quella cinese a quella bizantina a quella indiana, siano l’attenzione alla “luce”, alle tonalità come elemento che differenzia il contesto della rappresentazione, evitando la fissità dei dipinti ad alto effetto simbolico; tra le grandi differenze dalle altre civiltà vi è poi anche il concentrarsi sull’“anima” del soggetto, l’introspezione psicologica e non solo la riproduzione di specifiche caratteristiche fisiche; e infine il “racconto”: la socialità, la teatralizzazione dinamica della rappresentazione, non la sua riproduzione statica. Del racconto fa parte a pieno titolo la descrizione di uno spazio che non è più fisso, classico, simbolico, ma è modernità cioè cambiamento. È uno spazio umanizzato, agreste o urbano che sia. Anche se è poi il racconto della città che definisce la sigla decisiva della modernità. Si comincia a rappresentare gli edifici, le mura dei nuovi comuni nello sfondo dei personaggi: si ricordino certi quadri di Giotto o Simone Martini. Si arriva alla città ideale di Piero della Francesca. Verrà poi la gioiosa città barocca e quella sezionata dalla tecnica di Canaletto. Fino alla contemporaneità».
E Sironi è un protagonista di questa grande tradizione dell’arte occidentale?
«Sì, senza dubbio. È un artista che segna il Novecento e la cui grandezza va riconosciuta. Dopo il secondo dopoguerra, a causa del suo rapporto intimo con il fascismo, fu messo da parte. Ma già negli anni Cinquanta, il professore con cui mi sono formato, allievo di Roberto Longhi, Francesco Arcangeli, aveva iniziato una riflessione critica tesa al recupero del pittore sardo-milanese. Con questo fine aveva organizzato una mostra sui parallelismi tra Permeke e Sironi, partendo anche da una battuta del grande Longhi («Permeke? Sironi») che conteneva una nota di sarcasmo sull’artista italiano. Oggi a cinquant’anni di distanza la mostra che ho promosso, curata a Palazzo Reale di Milano da Vincenzo Trione, riprende il filo di quel discorso e dà ancora maggiore risalto alla potente plasticità sironiana».
Insomma nonostante fosse fascista, è stato un grande poeta. «In una certa misura è proprio l’illusione fascista di costruire un mondo nuovo ispirato alla passata grandezza dell’Italia che ha dato a Sironi l’ispirazione per le vette artistiche della sua produzione pittorica. In questo senso il fascismo ha funzionato meglio con i suoi artisti dello stalinismo che invece ha depresso l’ispirazione di artisti della forza di un Malevic. In Russia hanno prevalso i rozzi ideologhi alla Zdanov, da noi, no».
Ma torniamo al «racconto della città» come una delle chiavi dell’arte occidentale. «Il problema centrale fu passare da un’arte che riproduce monumenti ed edifici come simboli a una che vuol rappresentare una realtà urbana contemporanea naturalmente letta dalla cultura dell’artista. E questo obiettivo fa parte del problema centrale di tutta l’arte umanista e rinascimentale: la misurazione dello spazio e quindi la codificazione della prospettiva. Non è stato un problema eminentemente tecnico: sia i classici sia i bizantini non avrebbero avuto difficoltà a risolvere tecnicamente i problemi della prospettiva geometrica in pittura. L’affinamento dell’uso della prospettiva è stato una scelta narrativa, quella di partire dalla realtà (con tutte le mediazioni che questa richiede per essere riprodotta) e non solo dai simboli. Dal racconto non solo dal mito. Tecnicamente il rapporto tra punto di vista e punto di fuga che inquadrano il soggetto, se già s’intravede nei dipinti giotteschi della cappella degli Scrovegni, è risolto in modo compiuto dal Brunelleschi e portato alla sua perfezione da Piero della Francesca. Come spesso succede a una civiltà per risolvere un problema tecnico, si costruisce una gabbia (felice per quel che riguarda lo splendore della pittura rinascimentale, ma pur sempre una gabbia) che richiederà molto impegno, poi, per essere superata. Lo spazio definito dalla prospettiva brunelleschiana è quello che si vede con un occhio solo e da fermi, ed è uno spazio che non ha limite all’infinito. Mentre il nostro spazio visivo è percepito con due occhi, per lo più in movimento.
La cultura moderna, poi, ha dimostrato che lo spazio non è né finito né omogeneo. È Michelangelo che nel progettare i dipinti della Cappella Sistina incomincia a interrogarsi su uno spazio di cui l’occhio dell’artista non sia la misura centrale. E lo spazio michelangiolesco si delinea come uno spazio non più illimitatamente orizzontale: non siamo più noi il centro del mondo e non ne siamo la misura definitiva. La riflessione dell’artista fiorentino anticipa di qualche anno quella di Keplero che, minando la concezione tolemaica dello spazio, darà una base teorica alle intuizioni del Buonarroti».
Dopo le spericolate evoluzioni barocche adottate nella costruzione dello spazio, nella storia della rappresentazione della città viene il momento di Canaletto. «Canaletto usa un nuovo strumento tecnico, la camera ottica, per fissare un punto di vista fisso e oggettivo di un paesaggio. Spostando la camera ottica, “vede” un settore limitrofo di paesaggio e poi un altro ancora: componendo i vari comparti del paesaggio realizza così una visione a 180 gradi di una città. Poi, essendo bravo come lo è Canaletto, si riesce a offrire a chi guarda il quadro quelle visioni allegre e nitide di Venezia che ben conosciamo».
Ma «come guardare» lo spazio per poterlo dipingere resta una questione problematica per l’artista occidentale che non si arrende alla soluzione data dalla tradizione.
«Sì, l’arte occidentale è una sequela di soluzioni di problemi che ne creano nuovi. Le conquiste razionali del Settecento non resistono alle inquietudini di fine Ottocento, quando gli impressionisti pongono il tema della “percezione reale”: la pittura deve rappresentare ciò che davvero l’occhio percepisce, iniziando naturalmente dalla luce. È Cézanne quello che si tormenta di più sull’onda dell’imperativo impressionista fissato da Monet: “descrivi ciò che percepisci”. Nel suo impasto compositivo usa le solide figure fondamentali (il cono, la sfera, il cilindro) per riprodurre l’essenzialità della percezione. Ma non gli sfugge come la sua concreta percezione visiva non sia quella offerta da “un occhio solo”. Se si deve dipingere quel che si vede non si può prescindere dal fatto che si “vede” con due occhi. L’ultima sua lettera è centrata sull’equazione non risolvibile di come rappresentare una realtà duale. Nel 1906 con il suo ultimo dipinto Le bagnanti tenta una risposta. Nel 1907 Picasso va a vedere la mostra del pittore appena scomparso, vede Le bagnanti, coglie il problema non risolto. Poi, gli capita di vedere esempi di arte africana che rappresentano figure essenziali e asimmetriche, e capisce che al dilemma impressionistico si deve rispondere rappresentando non ciò che si vede ma anche ciò che è, anche la realtà che non vedi. La quarta dimensione oltre all’altezza, la larghezza e la profondità. Da qui le sue Demoiselles d’Avignon. Di qui l’invenzione del cubismo. E la sua lettura di quella realatività dello spazio che Einstein spiegherà, poi, teoricamente nel 1910».
E Sironi?
«L’Italia e Milano in particolare sono in quel momento un punto centrale della cultura pittorica, nel 1909 Boccioni e i suoi lanciano il Manifesto futurista che affronta anche i temi del cubismo in un modo anche più aperto all’infinito. Il manifesto viene presentato innnanzi tutto in francese e a Parigi. Picasso, Braque non prendono bene la sfida alla loro autorità. Il peso dei francesi è tale che gli italiani modificheranno le loro impostazioni: se si guardano le opere di Boccioni del 1909 o del ’10 si avverte un’audacia che non si trova più negli anni successivi. Comunque il sardo Sironi trasferitosi a Milano partecipa a una grande atmosfera internazionale che è alla base della sua formazione. L’evoluzione dal futurismo alla tradizione del Novecento, plastica e corposa, è direttamente legata all’avvento del fascismo, è la risposta alla scelta mussoliniana di modernizzare l’Italia nel segno della sua passata grandezza. Noi cogliamo oggi bene le distorsioni del fascismo, gli elementi anche ridicoli del suo richiamo alla romanità. Ma questo non deve impedirci di comprendere come la sfida fascista fu uno stimolo eccezionale per un artista di assoluto valore come Sironi. È alla Triennale del 1933 che Sironi con i suoi affreschi impone i suoi valori plastici, la sua idea totale dell’uomo, la sua reinterpretazione della classicità (che è anche di un architetto come Piacentini). La sua lettura della città come sintesi tra la tristezza della condizione umana e l’utopia della modernizzazione industriale. Non va scordato che Sironi arriva al fascismo dalla cultura socialista che fu anche di Mussolini. Anche da qui deriva l’attenzione al lavoro e al suo eroismo. Naturalmente i cretini non mancavano anche di quei tempi: allora i re degli ignoranti non erano cantanti ma rozzi squadristi che denunciano Sironi e i suoi amici come “internazionalisti”, li combattono come corruttori del bello stile italiano, e inventano il premio Cremona per combatterli. Toccherà a Bottai contrapporre al premio farinacciano il premio Bergamo, in loro difesa».
Al di là dell’origine fascista, la rappresentazione della città industriale da parte di Sironi è impressionante, legge queste periferie nella loro anima, nei loro colori. Ha un uso delle masse che ricorda Masaccio. Interpreta non solo il presente ma anche il futuro di Milano. Non vengono in mente tanti artisti capaci di fare i conti con la modernità industriale.
«C’è Leger: ma la sua lettura della civiltà industriale è colorata, allegra, chapliniana. I colori e l’architettura di Sironi sono inimitabili. Milano è diventata quel che è diventata grazie anche a lui che fu un leader di un’epoca che vedeva all’opera architetti dotati di una sensibilità assai consonante con la sua. La lunga avventura occidentale del racconto della città che inizia alla fine del Medio Evo, può dunque annoverare con ragione un protagonista in Sironi: un artista che non ritrae più il nitore della città ideale di Piero della Francesca, ma che mostra comunque tutta la forza della sua triste e utopica città industriale. Dopo di lui i più grandi narratori della città saranno gli americani che raccontano una città diversa da quella sironiana, più individualistica.

Si pensi a Edward Hopper, il pittore che prepara un altro tipo di rappresentazione eminentemente urbana - ma assai poco europea - quella della pop art. Ma di questo parleremo nella prossima puntata».
(2. Continua)

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