Luigi Capello, 57 anni, laurea in Economia alla Luiss di Roma, e master a Stanford, è un capitano d'azienda 4.0. Un imprenditore e investitore che dopo un ventennio nel mondo della finanza milanese, e una sosta nella folle ed affamata Silicon Valley, è tornato a Roma. Ha creato una fabbrica di start up e un trampolino per lanciarle. Si tratta dell'acceleratore Luiss EnLabs e della società di investimenti nel settore del venture capital LVenture Group, la prima holding del genere (in Italia) a essere quotata in Borsa. In quattro anni d'attività, ha generato mille posti di lavoro, sostenendo 54 start up con un investimento di 32 milioni. I ricavi del 2017 sono in crescita del 48% rispetto al 2016. Il quartier generale è nella Stazione Termini di Roma dove è stato affittato un open space di cinquemila metri quadrati. In gennaio debutta una nuova sede nel Fintech District di Milano, l'area per lo sviluppo della finanza innovativa e tecnologica, prescelta per una proiezione internazionale del suo marchio. Dinamismo, freschezza, giovinezza. Avverti questo quando superi la soglia di Luiss EnLabs, un alveare di imprese partorite da 500 ragazzi sotto i 30 anni. Banditi bamboccioni e Neet. Qui c'è energia allo stato puro, adrenalina, voglia di farcela, c'è chi vi rimane fino a notte fonda arrivando di primo mattino. Perché la sede è aperta 24 ore.
Cosa si aspetta dal primo incontro con uno startupper?
«Innanzitutto non chiedo un business plan, trattandosi di un'impresa ai suoi inizi. Analizzo il progetto, il tipo di prodotto e l'approccio al mercato».
A proposito di mercati. Quali sono quelli trainanti e quelli invece ormai in declino?
«Le piattaforme social ormai non hanno più senso. Direi di concentrarsi sui punti di forza del nostro Paese. Per esempio il lifestyle: moda, design, benessere, cucina. Poi il mondo dell'intelligenza artificiale, abbiamo ingegneri incredibili in Italia. In questo settore stiamo facendo passi da gigante».
Una giovane impresa deve sapersi presentare in 5 minuti, dicono i manuali. Vero?
«Per il primo incontro con l'investitore, i tempi sono questi. Ma anche l'investitore va oltre i 5 minuti quando decide di scommettere sull'impresa. A me piace martellare con raffiche di domande, possono passare quindi anche ore».
Una start up bussa alla porta. Passa la selezione ed entra nel vostro portfolio. Poi cosa succede?
«Deve stare da noi per sei mesi e lavorare a tempo pieno: esigiamo che vengano date le dimissioni dai precedenti impegni. Deve riuscire a fatturare dimostrando così che il prodotto è vendibile, che c'è un mercato. Monitoriamo di continuo, c'è un team di accelerazione che fa questo con incontri ogni due settimane. Nei due mesi conclusivi, forniamo all'impresa contatti con potenziali clienti, bisogna staccare sempre più fatture. Quindi si passa alla presentazione a investitori. In novembre abbiamo presentato a una platea di circa 300 investitori e aziende le sette start up uscite dall'ultimo programma di accelerazione».
Se un'impresa volesse rimanere da voi oltre i sei mesi?
«Paga 200 euro a postazione fino a un massimo di 2mila euro per l'ufficio».
Qui si respira positività. Ma come la mettiamo con il dato che dà per fallimentari 9 start up su 10?
«Vero, se si digita su Google la combinazione start up-fallimento i numeri sono questi. Da noi, la sopravvivenza è maggiore. In questi anni, cioè dal 2013, abbiamo calcolato che ha chiuso solo il 20%».
Forse perché a monte c'è una selezione con parametri ben definiti?
«Col tempo ho capito su cosa dovevo puntare per creare e selezionare un'azienda forte e cosa invece dovevo assolutamente evitare per non rimetterci l'investimento iniziale. Bisogna valutare la qualità del team. Cercare di capire se le persone sono in grado di portare in fondo il progetto, se sono mature o hanno le potenzialità per diventarlo. Se sono in grado di gestire aziende con proiezione internazionale. Deve esserci il mercato per quel tipo di prodotto».
E comunque, non trova che in Italia si demonizzi in modo irragionevole l'insuccesso? Preparate i ragazzi ad alzarsi dopo una caduta?
«Non diciamo quello non ce l'ha fatta, semmai quello ha provato. L'importante, come ricordano i latini, è non perseverare nell'errore. La famiglia e la scuola dovrebbero insegnare ai ragazzi a provare, a non vergognarsi se qualcosa va storto spronandoli a non accontentarsi. Mi è capitato che qualche stagista se ne andasse per un'offerta di lavoro meno ambiziosa, intrigato da un contratto a lungo termine o anche solo dalla vicinanza a casa. Noi vogliamo gente con una propensione al rischio e che non si accontenti».
All'università di Stanford un insegnante ha chiesto agli studenti quanti ambivano a creare un'azienda in proprio e quanti a entrarvi. La proporzione era di 9 a 1. Chiedo a lei che tiene masterclass in università, cosa risponderebbero i nostri studenti?
«Sicuramente la proporzione sarebbe rovesciata, forse non completamente ma in gran parte».
Per dire che nel nostro Dna manca la propensione all'imprenditorialità e al rischio?
«In realtà, se vediamo la montagna di partite Iva e di free lance, deduciamo che vi sia una certa propensione al rischio. A mancare è il senso del rischio da parte dell'investitore. Uno deve rischiare un po' anche sulle teste altrui. Deve intuire quali sono le iniziative sulle quali ha senso scommettere. In breve: non siamo un Paese di venture capitalist. Manca la sensibilità verso gli investimenti ad alto rischio».
Cosa dicono i numeri?
«Nel 2016, in Italia sono stati investiti su imprese innovative 180 milioni, nella vicina Francia 2,7 bilioni».
Se dovesse convincere potenziali venture capitalist a farsi avanti?
«Direi che l'investimento è infinitamente etico: si investe su un'azienda del futuro».
Voi quanto avete investito fino ad ora?
«Direttamente 8 milioni e 24 sono stati co-investiti».
Quanto mettete a disposizione per la singola start up?
«Ci sono investimenti MicroSeed fino a 80mila euro per progetti non ancora sul mercato e Investimenti Seed fino a 250mila per aziende già sul mercato».
Tutti soldi italiani?
«Per la maggior parte. Per dire che qualcosa si sta muovendo. Ora anche le banche stanno creando fondi di investimento avvicinando la clientela al mondo delle start up. Sono stati introdotti sgravi fiscali per chi investe in imprese innovative: in particolare da gennaio 2017 per individui o aziende che investono in start up, sia in modo diretto sia attraverso società quotate, è previsto un beneficio fiscale del 30%. Ma non basta, dobbiamo accelerare il processo».
Fisco e regole quanto sono amici dell'innovazione?
«Il ministero per lo Sviluppo economico ha creato le condizioni per far nascere le start up, da questo punto di vista l'Italia è all'avanguardia in Europa. Poi però lo Stato complica la vita. Si finisce nel ginepraio dei bandi».
Partorito il bimbo, si fatica a crescerlo?
«Sì, il punto è questo. Dobbiamo essere più pratici e risolutivi, migliorare l'impegno e la partecipazione tanto degli investitori quanto delle corporate nel supportare e sostenere l'innovazione nel nostro Paese. E lo Stato stesso anziché creare scogli potrebbe addirittura diventare uno dei principali clienti, come fa Israele, per esempio, che è il primo a beneficiare dei risultati delle start up acquistandone i servizi».
Le start up che promuovete sono tutte italiane?
«Per i due terzi sì, e tutte legate al mondo digitale. Si va da piattaforme che creano gruppi di acquisto online per condividere i costi dei servizi digitali, a un sistema che mette in contatto clienti, staff e ristoratore. Servizi che attraverso un chatbot ordinano un pasto sano in linea con la nostra dieta. Un sistema che monitora le necessità idriche dei terreni e i parametri ambientali attraverso l'Intelligenza artificiale».
Qualche nome?
«2Hire ora collabora con marchi importanti nell'automotive. Un team fortissimo, inizialmente pensavamo che il loro progetto non fosse realizzabile. Per fortuna ci sbagliavamo. I ragazzi non hanno i limiti che noi ci poniamo, vedono oltre. Menziono Codemotion, un'impresa fondata da sole ragazze, ora arrivata a 30 componenti. Organizzano eventi legati alla tecnologia mettendo a dialogo sviluppatori e corporate. Fanno anche corsi serali e per bimbi. Potrei citare Whoosnap che certifica video e foto, un servizio che sta interessando il mondo delle assicurazioni: in caso di incidente si bypassa la classica constatazione amichevole, con queste foto si dimostra la dinamica dell'incidente. C'è un file visivo inappuntabile».
Accanto a Netlex avete scritto a caratteri cubitali: «exit». I fondatori hanno acquistato le quote e sono usciti?
«In realtà siamo stati noi a vendere Netlex a una corporate che aveva bisogno della tecnologia messa a disposizione dalla start up».
Se dovesse menzionare imprese che faranno tremare i polsi ad aziende vecchio sistema?
«Soundreef, la concorrente della Siae. E sta andando molto bene».
Torniamo indietro. Come è nata l'idea di creare LVenture e Luiss EnLabs?
«Ero impressionato nel vedere la mole di partite Iva in Italia e la mancanza di sostegno alle imprese d'avanguardia. Così pensai di andare negli Usa per far conoscere le nostre giovani imprese. Dopo qualche mese nella Silicon mi resi conto che a mancare erano gli acceleratori. Così cambiai il piano d'azione».
Spieghiamo la differenza fra acceleratore e incubatore.
«L'acceleratore seleziona start up e team già costituiti pronti per sbarcare sul mercato entro 6 mesi: entro questi mesi devono poter fatturare. L'incubatore sviluppa team e progetti, lo troviamo alla prima fase, e spesso lavora in connessione con una università».
Il vostro primo mattone quando venne posato?
«Nel 2010 iniziammo in un garage, sempre nei pressi della stazione Termini. Poi nel 2012 siglammo due accordi con l'università Luiss per prendere spazi in stazione, nel 2013 il vero e proprio debutto».
Ci parli di questi ragazzi. Da dove vengono, quanti anni hanno, qual è il loro profilo?
«Vengono da tutt'Italia, l'età media è 25 anni. Nel team c'è sempre almeno un tecnico, poi vengono dalle varie facoltà».
La scuola italiana come li forma?
«Il punto di forza della scuola italiana sta nella capacità di trasmettere conoscenze. Barcolla invece in tema di competenze. Mancano le abilità del saper fare. Le nostre scuole sono spesso troppo nozionistiche. Un ingegnere non deve saper fare solo calcoli, altrimenti avrà sempre una posizione secondaria, deve acquisire anche le competenze che gli possano consentire di diventare un leader».
I suoi figli che scuole frequentano: pubbliche o private?
«I figli che mia moglie ha avuto dal precedente matrimonio hanno fatto scuole pubbliche. Uno lavora qui con me, l'altro a Basilea e un altro a Madrid. I nostri due sono adolescenti e stanno frequentando istituti internazionali a Roma».
A Luiss EnLabs si vedono volti giovani, ma alcuni sono addirittura adolescenti.
«Fanno parte del progetto di alternanza scuola-lavoro. Si fa tesoro della vicinanza anagrafica: startupper ventenni insegnano agli adolescenti. Un dialogo quasi fra pari dove il docente è un giovane che ha già una storia di successo da raccontare».
Invece ci racconti di lei e di Stanford. Come e perché arrivò nell'università numero uno al mondo?
«Nel 2010 decisi di frequentare l'Epgc (Executive program for growing company). Stanford è un posto pazzesco. All'epoca pensavo di prendermi un ufficio nella Silicon e lanciare start up italiane. Poi, frequentando quell'ambiente, ho capito che era più sensato fare un percorso alla rovescia: generare acceleratori in Italia».
Tornerà a Stanford?
«Sicuramente farò un altro anno di formazione, questa volta sulla leadership, però nella East Coast così mi confronto con un ecosistema diverso».
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