Una Carmen griffata ma troppo di routine

La regia di Carlos Saura non piace, anche se Mehta guida l’orchestra a meraviglia e la Gertseva è volonterosa, sensuale e drammatica

da Firenze

Il Maggio Musicale Fiorentino proponeva un tempo al mondo inusitate scoperte o inattese meraviglie. Quest'anno è una rassegna normale che ha per tema «Donne contro». Ora presentano l'arcinota Carmen di Bizet e poco altro. Pochissimo, per un teatro che nel programma di sala ostenta, al di là di coro e orchestra, 234 collaboratori. «Donne contro», s'intende, suona bene, soprattutto così, senza oggetto, e pazienza se oggi sarebbe più ardita una rassegna «Donne con». Però se un festival così importante sceglie un'opera che si dà continuamente e per di più in una coproduzione con un altro teatro, deve proporci uno spettacolo straordinario.
Invece no. La Carmen di Firenze, pur griffata Carlos Saura, che è un regista famoso ma nel cinema, figura nelle scene di Laura Martinez, come uno stand del Giappone in una fiera: pannelli trasparenti, ombre sulle pareti, spazio per nulla funzionale. Niente piazza, niente manifattura tabacchi, niente osteria, niente gola montana, niente Plaza de Toros. Perché? Non lo sapremo mai, dato che i personaggi navigano nella routine, andando a cantare in proscenio, le donne con le mani quasi sempre sui fianchi, tutti voltando le spalle ad un coro ammucchiato e completamente indifferente. Eppure, la compagnia è di qualità: Julia Gertseva è una Carmen di notevole personalità, volonterosamente sensuale e molto drammatica; Marcelo Alvarez è un tenore della migliore razza, anche se nel terzo atto grida come facesse la parodia di Mascagni; Inva Mula fa fino bene il proprio dovere anche se non cerca qualche cosa di più; Ildebrando d'Arcangelo ha uno spessore vocale stupendo e una presenza forte, tragica, da sfruttare. Fra i tanti personaggi, spiccano Gemma Bertagnolli, per nulla orfana del barocco e tutta flamenchizzata, e con gran disinvoltura Maurizio Lo Piccolo.
A tutti loro e ai cori (quello dei bambini un po’ in difficoltà), Zubin Mehta chiede musicalità, più che uno stile comune. Certo governa la magnifica orchestra a meraviglia, e il preludio del terzo atto è intriso di fatalità e leggerezza indimenticabilmente. Ecco, lì uno sente cosa potrebbe essere la sua Carmen, che invece vaga contraddittoria fra gli inutili pannelli.
Non molto meglio è intanto lo spettacolo della Norma a Bologna, con la regia di Tiezzi illuso che per onorare le immagini di Mario Schifano basti appenderne l'ingrandimento dei primi bozzetti, e che il classicismo di Bellini possa essere raffigurato con qualche seggiola Impero.

Ma qui c'è la sorpresa di Daniela Dessì, che dà alla tormentata sacerdotessa non solo la sua voce sempre di bellezza assoluta, ma anche un'autorità vocale e scenica fortissima ed un pathos crescente. Ci sono con lei il fido e anche troppo squillante Armiliato, un'eccellente e fascinosa Adalgisa, Kate Aldrich, li dirige Pidò, la gente applaude, fate a tempo ad andare ad ascoltarla.

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