Caro Veronesi, non fare l’americano

Caro Veronesi, non fare l’americano

Carissimo Sandro Veronesi, da tempo desideravo scriverti, e ora l’uscita del tuo nuovo libro, Baci Scagliati Altrove, m’impone di affrettare questo impegno che avevo preso con me stesso. Questa non è una recensione del tuo libro. Io voglio parlare con te, proprio con te, e se scelgo di farlo mediante un articolo di giornale è perché in quello che ti voglio dire non c’è nulla di privato.
Io non so bene a quali rischi mi espongo scrivendoti queste cose in pubblico. Tu sai che c’è gente che sembra pagata solo per fraintendere. E sai anche che nel nostro ambiente c’è chi non sa, o finge di non sapere, che uno scrittore è uno scrittore e basta, e crede che esistano scrittori, che so, «berlusconiani», o «veltroniani», o «cattolici», o «gay» (tutti insomma riconducibili a qualche lobbie o salotto o milieu intellettuale) e che di conseguenza - e non per meriti letterari - qualcuno abbia diritto a una recensione su un certo quotidiano che fa tendenza e qualcun altro no.
Io ti stimo perché i libri che scrivi contengono sempre un tasso di rischio, di esposizione personale di cui altri non sono capaci. Tu sei uno dei pochi scrittori capaci di dire di sé stessi, in un’epoca di superfetazioni egotistiche, parole come quelle che compaiono a pagina 9, quando parli «del goffo sforzo di esser sincero mentre stai mentendo». In questo mi ricordi il tuo Conterraneo Giosue Carducci, che avrà pure scritto tante schifezze, ma che ha anche avuto il fegato di scrivere «Tu, de l’inutil vita/ estremo, unico fior». Non sono tanti i letterati che accettano certe sottili umiliazioni.
Dopo questo preambolo vengo al cuore della mia lettera. Leggendo il racconto che apre il tuo libro, che intitoli Profezia (sul titolo avrei da ridire), m’imbatto fin dalle prime righe in un tratto caratteristico del tuo modo di scrivere. La tua narrativa dialoga sempre esplicitamente con altri scrittori, con altre esperienze letterarie, in genere reperite nel grande pool anglo-americano, di cui sei un ottimo conoscitore. Per qualche tempo un tuo interlocutore privilegiato è stato Ian McEwan, mentre nel caso di Profezia il nome che salta subito alla mente, soprattutto nelle prime pagine, è quello del compianto David Foster Wallace.
Se tu fossi uno di quei giovinetti che pensano di svecchiare la letteratura italiana importando modelli esteri non perderei tempo a scriverti: un modello importato appartiene sempre al passato, e preso come tale aiuta solo a portare indietro l’orologio: Foster Wallace ha scritto le sue opere importanti quindici, vent’anni fa, che è come dire cinquecento. Tu però non sei come loro: per te fare letteratura è essenzialmente un atto di amicizia, e un amico è anche chi ci offre le parole per dire le nostre ferite aperte. Un amico scrittore è sempre un uomo che ci tende una mano attraverso il proprio stile. E uno stile è un modo di conoscere, è qualcosa che appartiene allo scrittore ma va oltre la sua individualità. Lo stile di uno scrittore è ciò che gli permette di vedere e sapere qualcosa che altrimenti gli sarebbe vietato. Questo fa dello stile un bene comune: perciò uno non può fare lo scrittore da solo. Ecco perché accettare che gli scrittori vengano divisi a seconda delle presunte aree di appartenenza è una nefandezza.
La domanda che ti voglio fare riguarda però proprio questo punto cruciale della letteratura come amicizia. Se uno stile è un modo di vedere il mondo (e lo è), questa visione ci condizionerà, orienterà le nostre scelte, non trovi? Tu sai bene (e lo racconti) che mettersi nelle mani di un medico significa anche entrare in rapporto - nel momento di massima fragilità - con un certo modo di concepire la medicina e, quindi, l’uomo. La letteratura somiglia, in questo senso, alla medicina. Lo scrittore (che è il malato) prende in prestito un’espressione, un modo di dire, un’illuminazione da un altro scrittore, e finisce per importare una filosofia, uno stile di vita, meglio: un’origine. L’aiuto che uno scrittore ti offre per dire certe cose diventa poi un ostacolo quando si tratta di dirne altre. La letteratura italiana dal Dopoguerra a oggi ha sofferto molto di questa necessità di inventarsi un abito stilistico e di pensiero da presentare - noi, i perdenti - al mercato dei vincitori.
Questo orientamento non è mai cambiato, salvo luminose eccezioni poco digeribili sul mercato (vedi Gadda). Sono cambiati i prodotti da vendere sul mercato, non la tendenza di mercato: come quando Tondelli presentò Altri libertini, cominciando a fare piazza pulita di un vecchio costume letterario, che per trent’anni aveva riempito di partigiani le pagine di tutti i romanzi italiani. Oggi al posto dei partigiani ci sono i commissari di polizia: segno che nonostante tutti i Tondelli la nicchia ecologica è rimasta. È una tendenza un po’ dimissionaria, che nei casi peggiori diventa plagio o imitazione di modelli e in quelli migliori ci pone in seconda fila, autori di libri belli, piccoli capolavori, ma scritti nella periferia dell’impero, dove le idee arrivano ma non subito.
Non è un’accusa che muovo a te, Sandro caro. Mi ci metto anch’io, mettiamoci tutti. Penso ad esempio alla lingua italiana. Chi l’ha mai detto che il suo destino debba essere quello di imbarbarirsi e impoverirsi sempre più? Non sono un conservatore: penso solo che la letteratura italiana non possa limitarsi a seguire l’andazzo, assecondandolo. Tu non scrivi certo come gli sceneggiatori delle sit-com, però il titolo Baci Scagliati Altrove con tutte queste maiuscole mi getta nel gorgo di una lingua tradotta, non mia, mi fa venire in mente i cd inglesi e non mi aiuta a pensare l’Italia. È un occhiolino strizzato e basta. Se la nostra fosse una lingua morta potremmo gettarci sul suo cadavere. Invece non è morta, le sue radici sono sensibili, e l’italiano non è solo Dante e Leopardi, ma un’avventura che continua. Ho letto in questi giorni il bellissimo romanzo La Casa del Sollievo Mentale (qui le maiuscole ci vogliono) di Francesco Permunian (Nutrimenti), e ne ho avuto la dimostrazione: si può rinnovare la lingua anche alimentandola, permettendole di gettare nuovi germogli. Questa è la vera identità: non la conservazione a tutti i costi di forme pregresse e immutabili, non la svendita sul mercato globale, ma la capacità che una cultura ha di porre dentro la globalizzazione i propri anticorpi e i propri semi di continuità.

La crisi, che è anche crisi di modelli, in questo può esserci propizia: il problema non è «parlare dell’Italia» ma avere uno sguardo italiano sul mondo, e gettare questo sguardo nell’agone globale nella certezza della sua utilità. Più saremo italiani e meno dovremo fare gli italiani.

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