A casa di Marfisa la magia nell'acqua di Koporossy

Dove la protettrice del Tasso si ritirò in attesa della morte, gli scatti colgono attimi di vita

A Ferrara, la città di Ludovico Ariosto, apparizioni, sogni, deliri si alternano in una delle case vere ed integre della città, la palazzina di Marfisa D'Este, edificata a partire dal 1559 per volere del marchese Francesco, figlio di Alfonso I e di Lucrezia Borgia.

Passata nel 1578 in eredità alla figlia Marfisa, amante delle arti e protettrice del poeta Torquato Tasso, ne fu la delizia e la dannazione fino al 1608, anno della sua morte, quando era già in corso il degrado di quei luoghi cortesi. Le stanze affrescate e i nuovi arredi di gusto rinascimentale, voluti da Nino Barbantini, lo storico ferrarese innamorato di Venezia, restituiscono l'atmosfera dell'epoca finale della corte estense, in uno spazio protetto e privato, con una struggente malinconia al pensiero che essa sia stata vissuta da una donna di carattere nel passaggio tra due epoche, fra il ducato estense e il dominio della Chiesa. Come lo avrà avvertito e sofferto? Come sarà stata asserragliata, sola, fra i tanti figli senza fortuna con una piccola corte, e ritirata da un mondo che era ormai altrove? Casa della memoria e casa della vita dove Marfisa, sensibile alla poesia più inquieta di Torquato Tasso, volle stare fino alla fine della sua vita nel 1608, rifiutandosi di lasciare Ferrara anche dopo la Devoluzione della città allo Stato Pontificio, quando la sua famiglia si trasferì a Modena.

Marfisa è dentro i versi evocativi, anche di quella stagione, di Gabriele D'Annunzio: «O deserta bellezza di Ferrara,/ ti loderò come si loda il vólto/ di colei che sul nostro cuor s'inclina/ per aver pace di sue felicità lontane;/ e loderò la chiara/ sfera d'aere e d'acque/ ove si chiude/ la tua melanconia divina/ musicalmente./ E loderò quella che più mi piacque/ delle tue donne morte/ e il tenue riso ond'ella mi delude/ e l'alta imagine ond'io mi consolo/ nella mia mente./ Loderò i tuoi chiostri ove tacque/ l'uman dolore avvolto nelle lane/ placide e cantò l'usignuolo/ ebro furente./ Loderò le tue vie piane,/ grandi come fiumane,/ che conducono all'infinito chi va solo/ col suo pensiero ardente,/ e quel lor silenzio ove stanno in ascolto/ tutte le porte/ se il fabro occulto batta su l'incude,/ e il sogno di voluttà che sta sepolto/ sotto le pietre nude con la tua sorte».

Quei dieci anni, dal 1598, saranno stati per lei pieni di inquietudini e di fantasmi, tra persone lontane e potere perduto, in una irrimediabile nostalgia. Ed è per questo che, diventato l'edificio comunale, e museo di se stessa con qualche oggetto rinascimentale, l'abbiamo sempre sentito esangue, irrisolto, di confine. Il rifugio di Marfisa, un luogo di rimpianto e di tristezza, per gli anni ormai fatti tardi di una donna ancor giovane. Ho così pensato di volgere in stimolante la sua condizione fra due epoche, e che Marfisa potesse continuare a essere il punto di incrocio di due mondi. E ho animato e agitato gli spazi immaginando, con l'amico Gulinelli, una sequenza di mostre fotografiche che, sotto gli affreschi disturbati di Bastianino, alternassero immagini di vita reale, prima con storie di donne e di stati d'animo femminili, poi con impressioni di acque e giardini.

Arrivano così a Ferrara, nella palazzina di Marfisa, dal Vittoriale degli Italiani, le fotografie di Claudio Koporossy, intese come una «magnifica ossessione» da Giordano Bruno Guerri. Sono visioni interiori coltivate lungo il tempo fermo della clausura, nostra oggi, di Marfisa all'iter, per definire forme labili e inconferenti nella natura, dove la realtà esiste un attimo. Esiste solo nello scatto fotografico: e l'ossessione, in verità, non è nella mente di Koporossy, ma nella nuova realtà, inesistente, che nasce e vive solo nella fotografia. Koporossy fissa ciò che è mobile, e aggiunge presenze al mondo con un furto che le strappa a un'esistenza precaria, risarcendole. Così il suo furto si rovescia, non toglie ma accresce la varietà delle cose. Nulla, neanche il fuoco che le assomiglia, è più mobile dell'acqua, che non si ferma, scorre e, quando la vediamo, è già mutata.

Nelle fotografie di Koporossy ciò che era, ma non sarebbe stato, è. Nella realtà tutto ciò che stato è. Koporossy immobilizza il moto e ferma ciò che è transeunte. La sua fotografia non è come la realtà. È come il pensiero: mobile, improvviso, vagante. Trasferisce nella immagine che resta un'impressione, emulando i risultati pittorici delle Ninfee di Monet. Molti, inconsapevolmente, scattano fotografie fuggevoli, impreviste, rovesciando l'attimo decisivo di Cartier-Bresson. L'attimo di Koporossy è piuttosto indeciso, nella organizzata casualità delle forme. Sono fotografie dell'anima segreta delle cose. Un'anima inconsapevole e naturalmente vibrante.

Per esse possono convenire le parole di Adriano: «Animula, vagula, blandula/ Hospes comesque corporis/ Quae nunc abibis in loca/ Pallidula, rigida, nudula,/ Nec, ut soles, dabis iocos...». Questo è lo stato d'animo con cui Koporossy guarda la realtà che gli sfugge. E ce la preserva.

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