Il caso Prodi-Kgb e la stampa indipendente

Ieri Il Manifesto, quotidiano che ancora si vanta d’essere comunista, si dava una gran pena per quel che accade nei giornali. Nell’editoriale di prima pagina, Roberta Carlini si doleva per la storia di spionaggio che in questi giorni sconvolge il Corriere della Sera. «La vicenda ci dà uno spaccato non edificante dei proprietari del Corriere, intenti a farsi la guerra in salotto con tutti i mezzi», scriveva la Carlini, che poi passava a occuparsi dell’altra guerra di carta che coinvolge Il Sole 24 Ore, dove Innocenzo Cipolletta, il presidente-ferroviere, è stato fatto scendere dalla locomotiva del quotidiano confindustriale senza troppi complimenti. «Insomma», annotava la giornalista del Manifesto, «se davvero i giornali sono come bastoni, nessuno vuole mollare la presa, tanto più in un momento di politica debole, in cui si fanno e disfanno maggioranze ma anche affari. Scorrendo l’elenco dei nomi degli editori si ha un’idea della loro dipendenza dalle decisioni del governo».
Perdonate la lunga citazione, ma leggendo la Carlini ieri ho avuto la certezza che questi giornalisti di sinistra sono proprio ingenui. Ma davvero al Manifesto credevano fino a ieri alla favola della stampa indipendente, dei giornaloni autorevoli che fustigano il potere e che sono svincolati dagli affari dei loro padroni (uso un termine caro al quotidiano comunista, così forse ci capiamo meglio)? Gabriele Polo (che del foglio rosso è direttore) la penserà mica come Paolo Mieli, la testa sopraffina che dirige il Corriere della Sera? Com’è noto, Paolino crede ancora a Babbo Natale e alla Befana, al punto che mesi fa dichiarò, nel corso della trasmissione tv di Giuliano Ferrara, che i suoi azionisti sono più evoluti, non hanno l’anello al naso come Berlusconi e soci. I padroni del Corriere sono «amici», cito testualmente, «che non si sognerebbero mai di fare pressioni sulla direzione o sulla redazione» affinché i fatti siano dipinti in modo a loro conveniente. Povero Mieli, ancora non sapeva, quando rilasciava dichiarazioni così snob, che una banda di spioni lavorava intorno alla sua sedia. Ma tant’è. La verità è che le anime candide del giornalismo, sia che lavorino al Manifesto o dirigano l’ex giornale della borghesia italiana, per molto tempo hanno finto di credere che il pericolo per la libertà d’informazione venisse dal Cavaliere e non dagli intrecci tra affari, politica e informazione che crescono all’ombra dei potentati economici. Hanno giocato a fare i giornalisti super partes, preoccupati solo delle sorti del Paese e non di quelle delle aziende dei loro editori.
E invece l’unico argomento che sta loro a cuore è la conservazione di un sistema che ha fatto della propria debolezza il proprio punto di forza. Di un modello industrial-editoriale che ha bisogno della politica per campare. Volete una recente conferma? Prendete il caso Prodi. La Bbc e la Itv, due delle più importanti televisioni inglesi, mandano in onda servizi e interviste in cui si dice che, secondo un importante ufficiale russo, il nostro presidente del Consiglio era amico del Kgb, il servizio segreto sovietico, e nessuno – nessuno tranne Il Giornale – mette la notizia in prima pagina. Il Corriere la liquida su due colonne in mezzo al varietà, tra la poligamia e la moda. La Repubblica vi dedica una didascalia di 40 parole, articoli indeterminativi e preposizioni comprese. La Stampa in prima edizione niente, manco una virgola: poi, in ribattuta, ha infilato la notizia in una spalletta di poche righe. Io non so se Prodi fosse o non fosse amico, o uomo di fiducia, dei russi.

So solo che ogni qualvolta l’Economist o il Financial Times – non la Bbc e la Itv – hanno riportato uno starnuto su Berlusconi, le pagine del Corriere, di Repubblica e della Stampa si sono improvvisamente riempite di dettagliati racconti, interviste, approfondimenti. La stampa europea ci guardava e quella italiana si vergognava e scriveva. Oggi, di fronte agli imbarazzanti interessi dei propri azionisti, la stampa nazionale non si vergogna più.

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