Cercare la memoria a colpi di vanga

Da qualche anno nella pagina elaborata e cupamente risplendente di Michele Mari si danno appuntamento i membri di un club eccentrico e poco raccomandabile, altrettante varianti della socratica torpedine marina: Landolfi e Lovecraft, Hoffmann e Villiers de l’Isle-Adam. Né fa eccezione il recente Verderame (Einaudi, 164 pagg., 16.50 euro). Non abbiamo ancora finito di aprire il volume che già assistiamo all’efferato colpo di vanga con cui il factotum di una villa del Varesotto, in fondo si tratta di un vecchio mostro, divide in due tronconi le grosse lumache francesi che infestano il campo di lattuga, prima di sputare uno «scaracchio che nessuna benedizione avrebbe trasformato in madreperla».
Il mostro, scopriremo, è malato: dimentica i nomi delle cose, persino il suo stesso nome, Felice, costringendo il bambino che ne segue preoccupato il declino mentale, Michele, a soccorrerlo con mezzi di fortuna: oggetti dal nome simile (una busta di latte per indicare la lattuga), cartellini come in un curioso racconto di Schnitzler, finanche la deissi di una freccia in un tripudio di somiglianze e contiguità rubato alle teorie di Hume, Frazer, de Saussure.
Opportunamente decifrati, tutti questi espedienti perdono gran parte della loro cervelloticità, configurando qualcosa che assomiglia ad un kit semiologico con il quale contrastare la perdita di memoria che affligge la cultura contemporanea.
E pazienza, se il rimedio non potrà raggiungere la geometrica trasparenza del diamante: «Chi entrasse in questa stanza ne avrebbe l’impressione di un riempimento casuale e compulsivo, come per una specie di horror vacui: solo noi due sappiamo invece quanta ponderazione abbia richiesto ogni singolo elemento, e quanto angosciante sia stata la lotta con l’esiguità dello spazio disponibile».
Chi ha orecchie per intendere, intenda: non è più tempo di romanzi distesi, di sport letterari che consentano di agitare gambe e braccia. Scrivere, oggi, per chi non gioca con la scrittura, obbliga alle contorsioni di un Houdini, più che ad una danza a corpo libero.
Attraversato da un allegorismo così articolato da apparire insondabile, Verderame è un iper-romanzo che si avviluppa attorno ad un congruo numero di dimensioni, ma le prime a venire incontro al lettore sono essenzialmente due: i misteri innominabili serbati dalle cantine piranesiane della villa, dove botti quasi sfasciate custodiscono un succo d’uva mummificato che pur non essendo mai stato vino non ha ancora smesso di fermentare; e lo sgretolamento del mondo novecentesco.


Un attimo prima che la demenza senile tappi per sempre la bocca al mostro, Felice e Michele - cioè, via le metafore, il sacco bucato della trascorsa spiritualità letteraria e lo scrittore che come può tenta di rianimarla - dovranno ammettere che il passato, l’oggetto cui tendono tutti i loro sforzi, è altrettanto multiplo, bizzarro e smemorato del presente.

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