«Un cerchio alla testa» fra bellezza e santità

Matteo Failla

L’intento dichiarato dalla rassegna Da vicino nessuno è normale - organizzata dall’Associazione Olinda, con il contributo del Settore Giovani del Comune di Milano – è quello di presentare lavori teatrali che si occupino di situazioni straordinarie del quotidiano, e rappresentare stili di vita che mettano in discussione il senso di “normalità”. In questo contesto si inserisce Un cerchio alla testa - in scena questa sera negli spazi dell’ex Ospedale Paolo Pini - uno studio di Milena Costanzo, accompagnata in scena da Roberto Rustioni, sull’universo della scrittrice Cristina Campo.
Che risultato ha prodotto l’incontro con una scrittrice impegnativa come la Campo?
«È giusto parlare di “universo” della Campo – spiega Milena Costanzo -, perché lo spettacolo non vuole essere un “percorso teatrale” sulla sua figura. È piuttosto un lavoro sull’attenzione, vista come attenzione quotidiana che dovrebbe aprire squarci su un altro mondo e sul sacro, proprio come lo intende la Campo. Lo spettacolo gira intorno ai temi fondamentali dell’attenzione, della perfezione, della bellezza e della santità. I temi sono stati affrontati a partire dal corpo, mentre lo studio è nato in primo luogo dall’improvvisazione: è questa che ha dato vita al materiale teatrale, che abbiamo montato con rigorosa precisione in una griglia stretta che richiede molta concentrazione. I temi della Campo, per qualche strana alchimia, riaffiorano nei momenti di pausa, tra una scena e l’altra: in questo primo studio sono stati toccati in modo anomalo, perché sarebbe stato troppo affrontarli di petto».
In scena una donna e un uomo: due universi in contrasto?
«No, ho cercato di lavorare senza dare giudizi: non ho mai pensato che uno potesse essere positivo e l’altro negativo. Basti sapere che all’inizio questo spettacolo doveva essere un mio monologo, eppure più andavo avanti nello studio e più sentivo il bisogno di avere in scena una figura maschile; del resto la stessa Campo aveva in sé questo lato. Il lato femminile è quello più intimo e raccolto, quello maschile è “esterno”, continua ad entrare e uscire. In scena una donna sola si muove in uno spazio che sembra essere il suo mondo. Compie con fatica delle azioni che paiono normali, quotidiane: diventano rituali, e quel mondo comincia a diventare sempre più inquietante, soprattutto quando “il fuori” fa di tutto per entrare: ruffiano, idiota e invadente. Ecco quindi l’uomo che entra, disturba, si esibisce. Raramente lui e lei riescono a comunicare. Lo spazio si restringe fino a creare immagini, sorta di santini fantastici».
Ci sono in programma altri studi sui temi ispirati dalla Campo?
«Non credo sia questione di altri Studi, ciò che conta è approfondire alcuni temi essenziali che appartengono al suo universo.

Affrontiamo piuttosto il tema di un mondo che, come scriveva lei già allora, non si può più sopportare; e discutiamo della nobiltà d’animo: per la Campo bisognava “nutrirsene” fino in fondo, nel bene o nel male, purché fosse nobiltà».

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