Che bello quando la nebbia ricopre la città

(...) Ma per i papà, che dovevano prendere la macchina e uscire a lavorare, la nebbia era soprattutto una seccatura e un pericolo. Le mamme, se non dovevano uscire anche loro, si soffermavano alla finestra ogni volta che ci passavano davanti, nella speranza di vedere quel sudario alzarsi e lasciare il posto al cielo blu.
Poi un giorno abbiamo scoperto il simbolismo e la nebbia ha acquistato nuove risonanze. Per gli adolescenti che eravamo la nebbia era come la nostra vita, che ci presentava l'inizio di qualcosa di cui non si vedeva la fine. Tante cose iniziavano: la simpatia per una ragazza, la passione per la musica, le prime fantasie erotiche e le prime fantasie sul destino: che ne sarà di noi?
Erano le domande più vere, anche se gli adulti ci dicevano che erano domande adolescenziali. Poi siamo diventati adulti anche noi, e le domande vere sono rimaste quelle. Oppure abbiamo smesso di farci domande, magro risultato.
Quando mi trasferii dal vecchio paese di pianura a quello nuovo, sul Lago di Garda, la nebbia scomparve quasi dalla mia vita. Solo in rarissimi giorni arrivava a lambire le nostre case, sempre respinta dal gagliardo vento lacustre, l'Ora, che spazza l'aria e di nebbie e foschie non ne vuole sapere.
Il più delle volte il muro bianco si fermava su una certa curva della Statale 11: dietro quel gomito l'Ora non si spingeva, e allora riecco la nebbia, improvvisa. A sedici anni volevamo uccidere la preside: l'idea era quella di tracciare col pennello una linea di mezzeria dritta nel punto in cui la Statale 11 curvava e cominciava la nebbia. Così la perfida, che abitava nel brumoso entroterra, sarebbe finita fuori strada.
Mi sono trasferito a Milano alla fine del boom industriale, quando degli anni ruggenti restava solo qualche simbolo. La nebbia era uno di questi. La società di massa, l'uomo-massa, la solitudine delle grandi città, l'anonimato delle periferie e dei caseggiati, l'individuo ridotto a numero, e poi la nebbia, nella quale Bruno Munari, poeta di quegli anni, proietta questo omino piccolo piccolo e lo fa sentire sperduto: voci confuse, rumori di cose invisibili (tram, campanelli di bici, saracinesche tirate su, clacson) e poi colori pallidi, il rosso del semaforo oppure, guarda guarda!, dietro un muro il bagliore giallognolo di un caco rimasto per scommessa appeso al suo ramo. E lui, l'omuncolo, a guardarsi attorno tutto spaesato.
Poi, sarà il surriscaldamento del pianeta oppure il riscaldamento a gas delle città, sta di fatto che ultimamente la nebbia si è fatta vedere di rado dalle nostre parti, anche se la mattina alle sette e mezza le automobili che intasano le vie d'accesso alla città hanno tutte i fari gialli accesi.
I pendolari, vecchia forza della nostra città, ne conoscono il bello e il brutto. Conoscono il fischio del treno prima che prenda corpo, conoscono le sbarre del passaggio a livello appena fuori stazione, che abbassandosi tagliano quel bianco. E le luci posteriori di migliaia di macchine. E il fœmm del tübo de scapament'.
E adesso rieccola qui, la nebbia, nella Milano postmoderna, a fare i conti non più con l'anonimato e la massificazione, ma con la frammentazione e l'isteria di questi anni. E ci copre, come una placenta.

Ci obbliga a rallentare. Smorza un po' le voci e i rumori. E a noi, che ci camminiamo dentro, può capitare qualche volta di pensare a chi sta in galera, e guarda la nebbia da dietro le sbarre, e sogna i nostri stessi sogni.

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