Chi governa faccia qualcosa per fermare questa mattanza

Cadono come negli anni Settanta sotto il fuoco del terrorismo. I professori che devono arginare la crisi economica non ignorino una nuova crisi: quella antropologica

Qualcuno ha usato la parola «strage». Brutta parola, ma così è. Ne muore uno al giorno. Negli anni Settanta cadevano sotto il fuoco dei terroristi, oggi cadono sotto un altro fuoco. E anche se la mano che spara è la loro stessa mano, resta la domanda che ci facevamo al tempo delle Br: chi l’ha armata? Chi ha armato la mano del povero imprenditore edile di Nuoro che ieri si è tolto la vita dopo essere stato costretto a licenziare perfino i suoi figli? Cosa l’ha spinto a credere che la sola soluzione rimasta fosse quella di premere il grilletto? Non era certo la sola soluzione. Ma per lui non ce n’era un’altra.
Sono i poveri caduti del nostro tempo, gli anonimi eroi della guerra che si sta combattendo, nella quale sembra avere posto (a dimostrazione che il male non passa mai) solo la vecchia frase di Lenin: «Quando si abbatte il bosco, volano le schegge». Uccisi da schegge, da pallottole vaganti. Come i ragazzini che insanguinarono il fronte del Carso nella Grande Guerra. Come le ignare vittime della violenza ideologica. Un mio amico imprenditore non dorme da settimane perché non riesce a dire ad alcuni operai della sua azienda che è costretto a licenziarli. Sono gente da poco più di mille euro al mese, cinquantenni. Lui gira per i santuari mariani, in lacrime, a chiedere aiuto alla Madonna.
Chi, oggi, ha la responsabilità di arginare la grave crisi economico-finanziaria non dovrebbe permettersi di ignorare un’altra crisi, una crisi antropologica ed esistenziale, che ci ha infragiliti un po’ tutti, e le cui radici non stanno nell’economia e nella finanza ma in un vuoto, diciamo pure in una voragine educativa. Un governante ha il dovere di conoscere chi sono coloro che governa, e le misure che prende non possono omettere questo particolare. È fondamentale sapere con quali uomini si ha a che fare. Altrimenti è come sacrificare a Moloch.
Fino a una decina d’anni fa ho insegnato in un liceo. In uno degli ultimi consigli di classe ai quali partecipai il preside uscì con un’affermazione che si è impressa in me profondamente. Era maggio, e bisognava decidere circa i promossi e i bocciati. «Fate attenzione a bocciare», disse il preside «perché in questo periodo diversi ragazzi si sono tolti la vita per un brutto voto. È un dato di cui è necessario tenere conto». Molti dei ragazzi di allora oggi hanno famiglia e sono alle prese, come me, con la crisi. E non è detto che quella fragilità si sia risolta, che gli anni e il lavoro li abbiano irrobustiti. Ci vogliono solide ragioni: così solide da darci coraggio quando ci verrebbe da scappare o da tirarci un colpo in testa.
Immedesimiamoci, per favore, con un uomo che deve licenziare i suoi operai: gente troppo vecchia per sperare di trovare un altro lavoro, ma troppo giovane per la pensione. Pensiamo a quanto coraggio è necessario per dire: «Rimettiamoci insieme a fare qualcos’altro, aiutiamoci. Prima io ero il padrone e voi gli operai, adesso siamo tutti a spasso, perciò mettiamoci insieme a cercare, e in ogni caso ci resta la nostra dignità tutta intera».
Per ragionare così è necessario che al realismo si affianchi la fiducia (quella vera, non quella parlamentare). Ricordiamoci perciò dell’imprenditore di Nuoro. È lui il Milite Ignoto del nostro tempo. Ma onorare la sua memoria significa rendere il suo sacrificio utile a tutti. Giorni fa, al Salone del Mobile di Milano, è stato chiesto a don Tullio, cappellano dell’Istituto dei Tumori, di celebrare una messa. Il successo dell’iniziativa è stato grande e inatteso. Non dobbiamo stupircene.

C’è bisogno di una grande fiducia, perché sperare nel successo non basta più. E chi lavora, l’Italia sana che è molto più grande di quella dei furbetti, lo capisce bene. Se c’è un’uscita dalla crisi, questa è la strada. Il resto - temo - è Moloch.

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