Quaranta anni dopo l'uscita de Il nome della rosa, posso pure raccontarlo. Alla prima lettura, il libro mi cadde di mano dopo trenta pagine. Ebbi un moto di insofferenza giovanile per un linguaggio che mi sembrava appiattito su quello dell'Espresso, e in più non dimenticavo che anni prima il suo autore, Umberto Eco, aveva risposto a una mia lettera con una sua lunga e quasi minacciosa intimazione ad abbandonare la mia «poetica del desiderio» allora in incubazione. Ho ripreso il romanzo di recente, e la mia reazione è stata opposta: di condivisione e ammirazione. Cosa è successo nel frattempo? Intanto, ho letto e apprezzato opere come Il pendolo di Foucault e Il cimitero di Praga, e poi ho maturato una mia serie di osservazioni critiche sull'essenza di un romanzo. La Neoavanguardia, di cui Eco fu eminente teorico, aveva ridicolizzato e distrutto il romanzo tradizionale, e aveva di suo prodotto antiromanzi, tutti fondati su virtuosismi formali e linguistici, oggi illeggibili. Eco profittò di quella tabula rasa. E costruì il suo romanzo d'esordio puntando sui personaggi, il novizio Adso da Melk, che racconta le vicende una volta giunto alla vecchiaia, Guglielmo da Baskerville con la sua ferrea capacità deduttiva, tutti i monaci del convento tra cui il vecchio bibliotecario bianco di pelo e cieco, il terribile Jorge (in cui fu inevitabile intravedere Jorge Luis Borges). E puntando sulla trama: quel plot che si era invano voluto uccidere. Sette giorni, scanditi dall'ora prima a compieta e alla notte, e sette delitti. Inoltre, costruì per il romanzo con accuratezza architettonica uno spazio chiuso, una labirintica biblioteca in una abbazia sugli Appennini tra Piemonte, Liguria, Francia e scelse un'epoca, il XIV secolo. Un Medioevo tratteggiato nelle sue dispute teologiche e politiche, nei suoi tumulti ereticali e nei suoi risvolti sociali con una dottissima maestria, talvolta invadente.
Dunque Il nome della rosa legittimò con particolare vigore in Italia la contaminazione del romanzo di cultura con il romanzo di genere. Perché è insieme un thriller e un romanzo storico nella accezione manzoniana del termine (si apre con «naturalmente, un manoscritto»). Ed è un romanzo di idee, non privo di una buona dose di humour e di ironia. La critica più agguerrita in Italia continua a pensare al romanzo soltanto come a un laboratorio di esperienze linguistiche, dunque giudica negativamente Il nome della rosa. Per me, manca all'opera di Eco il senso del meraviglioso, la sofferta necessità poetica. Ma il congegno è perfetto. E il romanzo ha bisogno di una struttura ben congegnata e in grado di attrarre e divertire il lettore. In Italia oggi pochissimi sanno contemperare ambizioni letterarie e costruire trame e personaggi. Andrea Camilleri ci è in parte riuscito, prendendo spunto dal grande Leonardo Sciascia. Per il resto, continuano ad apparire in ogni vallata d'Italia valanghe di gialli con i loro pirla di commissari o, che forse è ancora peggio, romanzi vagamente autobiografici, minimalisti, sbrodolanti, con problematiche che spesso non vanno oltre l'ego e un ristretto, tristissimo orizzonte familistico. Tra i più giovani, si è sottratto a questo orizzonte soltanto Scurati con M. Mentre ci è rimasto dentro Missiroli con il suo deludente Fedeltà.
Scrive Eco nelle Postille a Il nome della rosa: «Ho scoperto dunque che un romanzo non ha nulla a che fare, in prima istanza, con le parole. Scrivere un romanzo è una faccenda cosmologica, come quella raccontata dal Genesi». È costruire un universo. È educare al destino. E qualcuno deve pur farlo.
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