«Ci hanno tolto tutto tranne la voglia di fare»

nostro inviato a Varese

Le coronarie? «Potrebbero stare meglio». Quanto al fegato, è diventato una brutta bestia, «gonfio ogni giorno di più». Per non parlare della cistifellea, proprio «quel sacchetto lì, dove si scarica la bile», robaccia che comincia per «b», come «banche» - sarà forse un caso? - e che da qualche tempo sta facendo le bizze. La salute, insomma, ricorda un po’ i libri contabili di questi ultimi terribili mesi. Ma, nonostante questo, nonostante tutto, il piccolo grande popolo delle mini imprese del profondo Nord, il popolo del fido negato e dei crediti incagliati, oltre a tirare avanti riesce ancora a sorridere. A pensare positivamente, se non proprio ottimisticamente, a qualcosa che si chiama «domani».
Perché non ci sono storie, c’è davvero poco da sfogliar verze. Quel Dna imprenditoriale pari a nessun altro, di cui parlava l’altroieri il presidente della Bce Jean Claude Trichet, è proprio un gene squisitamente italico. Ineguagliabile e inaffondabile. Lo si ritrova per esempio qui, in quel Varesotto un tempo felix dove le «ditte» si chiamano ancora teneramente come all'appello scolastico, per cognome e nome - di norma quelli del papà o del nonno che le avevano fondate - ma poi seguiti dalle fredde desinenze senza poesia imposte dal diritto commerciale: srl, sna, oppure snc. Comunque sempre sigle così, da queste parti; le più semplici, lontane dalla presunzione della spa, la società per azioni.
Ed è proprio una snc - società in nome collettivo -, guarda caso intitolata al cognome e nome della mamma del titolare, la Bellora Flaide, aziendina terzista per la trasformazione dei tessuti di Cardano al Campo, che Alberto Biganzoli cerca caparbiamente di far sopravvivere. «Sono un trasformista, mi hanno anche definito un prestigiatore del tessuto», si racconta lui orgoglioso, da sotto un casco di riccioli e da dietro un volto arguto che sembra rubato al cabaret.
Rivive gli inizi in proprio di papà, licenziatosi «una vita fa» da direttore del premiato Candeggio Gallaratese, «là dove non c'era ricamatore della zona che non portasse a trattare i suoi lavori». Racconta la sua rinuncia alla facoltà di Economia, impostagli dalla mamma, la sciura Flaide - «adess ti te ghe de spusà e de fa i dané» - anche perché, dice, «allora il lavoro c'era, mettevi giù due macchinette e via che andavi a manetta, senza tutte ’ste palle di fatture, modulistica e partite Iva». Ricorda il boom degli anni Ottanta, ma anche la crisi pesante del ’91-’92. «Che però era diversa, era di settore, senza lo spauracchio di oggi, quello della mancanza di lavoro. Perché di quello, adess ghe n’è pu. O, se va bene, ghe n’è propri poc».
Talmente poco, il lavoro oggi - «a settembre avrò fatturato 6mila euro, con nove dipendenti a libro paga» - che anche l’unica dei suoi quattro figli occupata in azienda, Veronica, ha mollato e si è presa un negozietto di alimentari. Tanto poco il lavoro in vista, per domani, che a dimettersi l’altro giorno, tra le lacrime, è stata anche Manuela, la segretaria, «di più, il mio braccio destro, che ha trovato un posto più sicuro. Ma io le ho detto che la capivo, che aveva fatto bene», sorride Biganzoli. «Perdere per questo il buonumore? Figuriamoci, fa parte del rischio. Al massimo mi mettono la casa all’asta e allora la mamma la affido al fratello che fa il dentista a Como e non ha di questi problemi. Io? Mi pianto una tenda canadese nel giardino dell’azienda e resto lì. Ormai sono pure separato, quindi...».
Del lavoro che è quasi scomparso ne parla con incredulo stupore anche «Schiavini Luigi - si presenta - della ST Acciai di Cardano al Campo», azienda specializzata in vendita di materia prima e trattamenti termici per conto terzi, come «tempre, o quelle cose lì», spiega. Ha i capelli grigi e il volto stanco, ma le idee sono purtroppo lucide. «Per dare un’idea in che situazione ci troviamo, pezzi microfusi come i nostri li puoi importare dall’Europa dell’Est a 4,5 euro, ma quelli che arrivano dalla Cina ne costano da 1 a 3, di euro. E intendo franco Genova, scaricati al porto. In più oggi è anche roba buona, molto buona, fatta alla perfezione. Questo per dire che così non si regge, così non ce la fanno nemmeno i Paesi emergenti dell’Est europeo, figuriamoci noi».
E infatti... «Lavoriamo per altri, per stampatori di ingranaggi con cui siamo magari in rapporto da cinquant’anni, che hanno ridotto il loro business del 50-60%. E noi di conseguenza. Ci conosciamo bene, ma adesso va così: senza lavoro anche loro, ci pagano quando possono. Era iniziato con un calo, tra fine 2007 e i primi del 2008. Non sembrava nulla di preoccupante, ma poi è venuto giù tutto nel giro di poche settimane, se non di giorni. Su sette impianti, ora ne abbiamo in attività soltanto due. Prima, erano tutti in movimento 24 ore su 24, sei giorni alla settimana, lavorando in tre turni».
Su come veda il futuro, Schiavini non si sbilancia. Ti dice che le premurose banche hanno tolto buona parte dei fidi e che a chi esibisce delle fatture a credito replicano dicendo «che non valgono più niente». Aggiunge che così loro, quelli della sua famiglia, «dopo aver messo tutto quello che avevamo nell’azienda» vanno avanti così, alla giornata.

Solidarietà dal sindacato? Sorride amaro. «Quelli se ne fregano, proprio oggi volevano fare sciopero. Che cosa gli dovevo dire, io? Scioperate pure, in queste condizioni ci fate quasi un piacere. Chiudo i cancelli e via. Mi costa anche meno».

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica