Cina, Ai Weiwei sfida ancora il regime

Il più famoso dissidente cinese ha definito Pechino «una città di violenza», dove i più miseri patiscono e i corrotti fanno la bella vita

Nuove critiche di Ai Weiwei, l'artista dissidente rilasciato nel giugno scorso dopo quasi tre mesi di detenzione, al governo di Pechino, accusato di negare ai suoi cittadini i diritti basilari.
Secondo quanto riferisce il South China Morning Post, Ai Weiwei ha definito Pechino «una città di violenza», criticando il sistema giudiziario cinese e le politiche governative sui lavoratori migranti. Ha parlato poi senza mezzi termini della corruzione dilagante nel Paese.
«Ogni anno milioni di persone - ha detto Ai - vengono a Pechino per costruire le sue strade, i suoi ponti. Ma sono solo schiavi di Pechino. Vivono in strutture illegali che poi Pechino distrugge per espandersi. Chi possiede le case? I governanti, i grandi imprenditori, i capi delle miniere che vanno ad arricchire i saloni di bellezza, i ristoranti e i karaoke».
Chiara anche l'allusione alla sua vicenda personale. «La cosa più brutta - ha dichiarato l'artista che è stato detenuto per 81 giorni - è che non puoi credere nel sistema giudiziario».
Secondo quanto fatto sapere da un familiare del dissidente, tra le condizioni dettate per il suo rilascio è stabilito che Ai Weiwei non può essere intervistato dai giornalisti, incontrare stranieri, usare internet o avere rapporti con avvocati per un anno.

Ai ha ripetutamente detto che nonostante la sua situazione, nonostante le pressioni che ancora subisce non è sua intenzione lasciare il suo Paese: «Andarmene o restare ed essere paziente e guardarli morire, veramente non so cosa farò». Subito dopo il suo rilascio, l'architetto tra gli ideatori del «Nido d'uccello», lo stadio olimpico di Pechino, aveva già criticato via twitter i vertici di Pechino il 10 e 11 agosto.

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