“Barbie” è al cinema e, anche considerata l’attesa montata ad arte in tanti mesi, era ovvio sarebbe stato un successo a prescindere dal gradimento finale da parte del pubblico. Basato sulla bambola più famosa, venduta e amata di tutti i tempi, quella creata da Ruth Handler e Mattel nel 1959, e diretto da una delle registe più talentuose di Hollywood, la brillante Greta Gerwig (“Lady Bird” e “Piccole donne”), “Barbie” si rivela un’opera dissacrante, con inserti musical e momenti da commedia demenziale ma anche con un cuore femminista, una burlesca disamina dei ruoli di genere e una verve riflessiva di stampo esistenziale mai banale.
Dopo un buffo antefatto kubrickiano in stile “2001: Odissea nello spazio”, veniamo introdotti a Barbieland, luogo in cui vive, circondata da sue simili, Barbie Stereotipo (Margot Robbie). Destinata a pensare a ogni giorno come al migliore della propria vita (Mark Twain avrebbe apprezzato), nel suo quotidiano domina il rosa e la tristezza non esiste. Ma, parafrasando una vecchia canzone, “essere felici per una vita intera sarebbe quasi insopportabile”, perciò accade che durante una festa Barbie, sotto ad una rigogliosa acconciatura anni 80, senta nascere pensieri non idonei e mortiferi. Con l’aiuto di Barbie Stramba (Kate McKinnon), cui ricorre recandosi nel suo castello cubista sulla collina, capisce che qualcosa sta accadendo nel mondo reale: forse la bambina che gioca con lei è in difficoltà. La nostra quindi si mette alla sua ricerca con l’intento di ripristinare la propria perfezione originale, ora inficiata dalla comparsa di piedi piatti e cellulite. Inaspettatamente si unisce anche Ken (Ryan Gosling) alla missione con destinazione Los Angeles, luogo che Barbie scoprirà molto diverso da come lo aveva immaginato.
Tra stoccate femministe e trovate gustose, “Barbie” mostra apertamente le criticità di un oggetto, l’iconica bambola, che nel tempo ha assunto inevitabilmente responsabilità sociali e culturali. La mentalità moderna del resto rifiuta tutto quello che di Barbie è diventato problematico: gli standard di bellezza ultraterreni, la rappresentazione sessualizzata e così via. Inoltre le fanciulle in fiore odierne paiono intransigenti su temi sensibili e sacrosanti legati all’espressione del femminile, all’identità di genere e all’unicità individuale.
Il film da un certo punto di vista sembra riposizionare il giocattolo nella sensibilità dell’epoca attuale con il beneplacito di una Mattel qui fortemente autoironica. Il femminismo della Gerwig è radicale come ci si aspetta ma anche pronto a smussare la propria complessità con una serie di siparietti divertenti e divertiti, atti anche a evitare di schiacciare un maschile che il film presenta spaurito. I Ken infatti sono poco più che figure di contorno, hanno ragione di esistere solo nel momento in cui una Barbie posa lo sguardo su di loro. Perfino la scoperta da parte di Ken Spiaggia di come il mondo reale segua le logiche del patriarcato e la conseguente evangelizzazione a colpi di mascolinità tossica presso gli altri Ken è più esilarante che minacciosa.
Verso metà il film inizia a deragliare. Se tutta la prima parte è una delizia tra tormentoni, leziosità colorate e citazioni cinefile spassosissime, dopo un po’ la regista si trova a mal gestire i troppi e variegati contenuti: capitalismo, diritti umani, guerra tra i sessi e autodeterminazione. Quest’ultimo processo, quello di affermazione della propria identità, non è certo indolore ed anche per Barbie è scandito in tre tappe: crisi esistenziale, depressione e riscoperta dei veri valori. Una volta orgogliosi delle proprie imperfezioni e contraddizioni, insomma, si diventa esseri umani.
Un vero peccato che l’atavica contrapposizione tra uomini e donne venga messa in scena solo in termini di scontro primitivo, senza che se ne teorizzi una soluzione pacifica reale. Occasione persa per esprimere la ricchezza dell’unione del principio femminile con quello maschile.
In itinere compaiono anche piccole ma disturbanti inversioni di rotta. Il personaggio fantasmatico di Ruth Handler, per dire, dapprima echeggia la figura dell’oracolo vista in Matrix poi quella di una persona rimasta fallacemente alla propria epoca.
Diversi spunti muoiono sul nascere, restando accessori come fossero una qualunque Dua Lipa in versione sirena. Si ragiona ad esempio di come l’archetipo sia apparentemente privo di una specifica spendibilità nel mondo reale, ma è solo una delle tante riflessioni rimaste in embrione.
Anche quando parla di dissonanza cognitiva o di appropriazione culturale, “Barbie” lo fa in maniera velocissima e questo fa parte del fascino intellettuale mai gridato dell’opera.
Si rendono abbordabili significati complessi facendo ricorso a kitsch volontario. Si ridacchia di molestie sessuali, disparità di genere e mascolinità tossica e va bene, al bando la pesantezza, ma “Barbie” a chi giova? Non è un film scacciapensieri o destinato a un pubblico di bambini (anche a coglierne solo colori e reiterate bufferie, due ore sono tante). Non è un film che ragiona davvero sul senso della vita, tranne in sporadici momenti in cui attribuisce bellezza a concetti come il dolore o la vecchiaia. Di sicuro è un viaggio nella memoria personale, nel senso che ognuno ha un ricordo che lo lega a Barbie, ma anche in quella collettiva dal momento che attraverso i vari modelli del giocattolo si ripercorrono la couture e le esigenze rappresentative di periodi storicamente variegati.
Forse è un monito ad abbandonare il mondo dei sogni e a scoprire la vita che, per quanto a tratti terrificante, supera di gran lunga in valore intrinseco qualsiasi idea di perfezione idealizzata. Della bambola si dice nel film che è stata inventata “per affrontare la parte spiacevole della vita”, il che sembra un po’ lo scopo nascosto di questo lungometraggio.
La sceneggiatura a quattro mani scritta da Gerwig col marito Noah Baumbach unisce, consapevolmente o meno, retaggi culturali diversi. “Barbie” è una specie di disneyano “Come d’Incanto” in grado di citare “Matrix” e “Il mago di Oz” (non solo con la strada di mattoncini rosa), ma anche molto altro in maniera più subliminale: l’Iperuranio di Platone, il percorso iniziatico di “Pinocchio”, l’antica commedia greca “Lisistrata” e l’eterno testo cinese “L’arte della guerra”.
Malgrado le
varie chiavi di lettura della pellicola siano poco fruibili perché mischiate piuttosto che disposte in maniera stratificata, anche solo per la molteplicità di riferimenti “Barbie” resta un film da vedere.
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