da Washington
È un po' melodrammatico chiamarlo «mea culpa», eppure non c'è modo migliore per definire l'iniziativa che Bill Clinton ha preso per confessare di essere stato lui uno dei colpevoli, forse il principale, dell'atmosfera avvelenata che si è creata in seno al Partito democratico nelle settimane delle primarie e che rischia ora di danneggiare seriamente le possibilità di successo nella corsa alla Casa Bianca sia del candidato che l'ex presidente ha preso a bersaglio delle sue critiche, sia quello che lui voleva proteggere ed aiutare: sua moglie. Eccesso di polemica, frasi dure e soprattutto concitate nei comizi e nei colloqui semiprivati con i giornalisti, gaffe attribuibili (e attribuite a tutti quelli che hanno avuto modo di osservarlo) a una tensione mai venuta alla luce in tale misura quando il candidato alla Casa Bianca era lui, Bill, e non la consorte. Le frasi puntute, i graffi con la voce sembravano invece prerogativa di Hillary, contro la quale sono partite le bordate di risposta di Barack Obama e dei suoi difensori. Adesso Bill emerge di persona e dice sorry. Precisa sì che alcune delle sue parole «sono state riferite in modo inaccurato», ma ammette di avere commesso molti e gravi errori. Lo ha fatto, come tutto in una campagna elettorale americana, in televisione, in una intervista con la rete Nbc: «Ho sbagliato a pensare di essere un marito come un altro e di sostenere mia moglie, dimenticando che la gente crede che io lo faccia come ex presidente. Così ogni volta che prendo la parola per aiutarla mi tiro addosso l'attenzione, divento io la notizia e la espongo a frecciate dirette verso di me. Devo convincermi che questa è la sua campagna elettorale, sarà la sua presidenza e quindi a contare saranno le sue decisioni. È la lezione che ho imparato in tutto quel polverone di polemiche: io posso aiutarla ma non difenderla».
Per venire al punto più dolente dell'intera polemica, l'ex presidente nega di avere attaccato Obama: «Hanno cucito insieme qualche parola e da ciò è nata una leggenda». Clinton afferma ora che quando ha parlato di «fairy tale» («favola») a proposito del resumé della linea di Obama nei confronti della guerra in Irak, la cosa «favolosa» cui voleva riferirsi era la carriera del senatore dell'Illinois e non intendeva dire che lui raccontasse delle favole nel senso di frottole.
Le scuse, come si vede, Bill le ha rivolte non solo a Hillary ma, almeno altrettanto, a Obama. Nessuno dei due ha fatto commenti, ma fra i collaboratori del senatore dell'Illinois il mea culpa è stato accolto con una certa freddezza. Riguardano soprattutto Hillary, invece, le anticipazioni sul ruolo che Bill avrebbe in una presidenza della ex first lady: «Hillary si deve difendere da sola, oppure chiedere aiuto a qualcun altro. A maggior ragione se diventerà presidente: avrà un vicepresidente forte, un forte Segretario di Stato. Io nel suo staff a tempo pieno non ci sarò».
Non è dato di sapere se ci sia aria di burrasca anche in famiglia o se le esternazioni del consorte siano state concordate. È chiarissimo invece il motivo che le ha indotte: la preoccupazione dominante da qualche giorno fra gli strateghi del Partito democratico che le polemiche fra Obama e i Clinton possano danneggiare in modo decisivo le possibilità di vittoria in novembre.
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