Colletti, il grande rimosso Troppo eretico per tutti

L’assordante silenzio (con la sua strutturale malafede) della sinistra intellettuale e politica, che in questi anni ha accompagnato in Italia il fallimento catastrofico del comunismo si è intrecciato all’altrettanto assordante silenzio che ha accompagnato, sempre in Italia, il catastrofico fallimento del marxismo (dopo i decenni euforici - dagli anni Cinquanta agli Ottanta - che avevano visto la pubblicazione di centinaia di libri, saggi e articoli su Marx, il marxismo, il leninismo, ecc.). Questa considerazione ritorna con forza ogni volta che pensiamo a uno dei maggiori pensatori italiani degli ultimi cinquant’anni. Ci riferiamo a Lucio Colletti, di cui ricorre quest’anno il decennale della morte.
Nato a Roma l’8 dicembre 1924 e morto improvvisamente alle Terme di Calidario il 3 novembre del 2001, Colletti aderì inizialmente al Partito d’Azione, poi al Pci. Nel 1956 fu tra i firmatari della famosa lettera degli intellettuali comunisti dissidenti con la linea del partito relativamente alla repressione sovietica in Ungheria. Otto anni più tardi uscì dal partito per aderire a posizioni di estrema sinistra, anche se non ebbe mai alcuna simpatia per il ’68. Il suo percorso intellettuale ed esistenziale registra una svolta radicale con la celebre Intervista politico-filosofica del 1974, apparsa presso Laterza, la quale suscitò a sinistra un enorme scalpore, seguito dagli stessi anatemi e dagli stessi giudizi liquidatori riservati a quel tempo a Renzo De Felice. Letti oggi, questi giudizi appaiono per quello che erano: manifestazioni di una mentalità stalinoide, risibile e grottesca, qualora si consideri, ancor più, che la storia ha dato ragione a Colletti e a De Felice, non certo ai loro critici sprovveduti. Il coraggio e la limpidezza intellettuale di Colletti appaiono indubitabili, se si pensa che proprio nel 1974-75, il Pci stava registrando in Italia la sua massima fortuna politica ed elettorale e tutto, in generale, sembrava congiurare per una vittoria della sinistra non soltanto nel nostro Paese (sconfitta degli americani in Vietnam).
Negli anni Ottanta Colletti vide con simpatia il nuovo corso politico impresso da Bettino Craxi al Psi e, dopo Tangentopoli, aderì a Forza Italia. Fu eletto deputato nelle sue file nel 1996 e nel 2001, mantenendo sempre una posizione di autonomia critica.
Il percorso filosofico di Colletti è altamente emblematico. Docente per molti anni di Filosofia teoretica alla Sapienza di Roma, aderì al marxismo con la profonda convinzione che questo rappresentasse il punto più alto del pensiero speculativo riguardo a una lettura realistica, scientifica e disincantata della realtà. Non a caso era stato l’allievo più importante del filosofo marxista Galvano Della Volpe, che aveva inteso sviluppare il marxismo come «galileismo morale», ossia come un sapere concepito secondo i canoni propri della scienza in quanto tale, volta a indagare la realtà con criteri empirici, sperimentali, materialistici e razionalistici. Una posizione teorica, dunque, avversa a ogni forma di idealismo, sia antico (Platone), sia moderno (Fichte, Hegel, Croce e Gentile). In modo particolare, Della Volpe e Colletti intendevano portare a piena demolizione la dialettica hegeliana, considerata, giustamente, luogo inestricabile di misticismo e di fumisteria filosofica. E il pensatore che, a loro giudizio, forniva le armi più agguerrite per questa demolizione critica era naturalmente Marx.
Il dramma esistenziale - e l’onestà intellettuale - di Colletti emergono quando egli, sulla scia di Kant, scopre invece che proprio Marx, ancor più di Hegel, rappresenta la massima mistificazione filosofica, dato che la sua teoria altro non è che è una gnosi travestita da scienza. Cioè il marxismo non è una scienza, ma una pseudoscienza. Precisamente è un caso, molto riuscito, di unione sincretica fra logos e mythos, dove però il logos non è pensiero scientifico, ma solo strumentale razionalizzazione del mythos. In quale luogo si svela questa mistificazione filosofica? Si svela proprio nel centro profondo della sua identità teoretico-metodologica: la dialettica. Nell’universo labirintico della dialettica è possibile individuare in che modo il marxismo sia una pseudoscienza. La logica dialettica intende conferire al marxismo lo status di un sapere superiore e invincibile, capace di superare le ricorrenti insorgenze contraddittorie dell’esistente. Di qui il suo inevitabile carattere soteriologico e salvifico. Si tratta di una pretesa enorme, anzi, a dir meglio, smisurata: «un pasticcio filosofico da scuola serale», come egli afferma nella Intervista politico-filosofica del 1974.
La dimensione totalitaria intrinseca alla logica dialettica si rivela dunque per Colletti nella natura stessa del suo metodo, cioè nell’idea che sia possibile dar conto di tutta la realtà, con l’inevitabile conseguenza che la spiegazione diventa, al contempo, norma, dato che tutti i giudizi di fatto, propri all’analisi, si risolvono in giudizi di valore, propri della prescrizione: il marxismo, infatti, non ci parla solo dell’essere, ma anche del dover essere. La sovrapposizione fra l’essere e il dover essere è generata dall’imbroglio epistemologico dovuto a questa intrinseca coincidenza, che permette il passaggio dalla descrizione alla prescrizione senza mai pagare il prezzo di una verifica. Di qui il tragico sincretismo metodologico tra giudizi di fatto e giudizi di valore, quella sovrapposizione concettuale che aprirà la strada non solo a tutti gli errori teorici del marxismo, ma anche a tutti gli orrori pratici del comunismo, essendo, questi, l’effetto di quelli. La sovrapposizione fra giudizi di fatto e giudizi di valore non solo ci dice cosa è l’uomo ma anche, e proprio per questo, cosa deve fare l’uomo.

È dunque dalla radice totalitaria della dialettica, e dal suo cognitivismo etico, che si sviluppa l’intrinseca natura illiberale e anti-individualistica del comunismo e il suo totalitarismo.
Colletti è stato uno dei grandi pensatori che ha colpito mortalmente al cuore il marxismo.

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