COM’È STRAPPALACRIME LA CRONACA NERA

Uno degli esercizi più curiosi, per chiunque sia interessato ai meccanismi della comunicazione, è osservare come sia cambiato il modo di trattare le notizie di cronaca nera nei nostri tiggì rispetto a qualche lustro fa. Gli studiosi del ramo potranno scoprire, ad esempio, quando la sobria espressione giornalistica «lascia la moglie e due figli», di per se stessa drammaticamente esaustiva, abbia smesso di rappresentare le parole finali di un servizio di cronaca nera, come avveniva un tempo, prima che cronisti assetati di emozioni forti si scatenassero alla ricerca del «come li lascia», «dove li lascia», «cosa sarebbe successo se non li avesse lasciati». Stiamo facendo dell'ironia su argomenti delicati, ma non si vede altro modo non troppo pesantemente censorio per stigmatizzare l'andazzo che trasforma tanti servizi di cronaca nera in afflati elegiaci, in componimenti strappalacrime (come se la cronaca nera non offrisse motivi continui per rattristarci), in morbose occasioni per indugiare su parenti, amici, colleghi delle vittime, alla ricerca non tanto e non solo della consueta domanda «cosa prova?» (ormai un cult entrato nella hit parade delle gag satiriche che prendono di mira il giornalismo) ma di qualsiasi spunto che possa servire a dire (e far dire) una parola più del dovuto, una spiegazione più del necessario e di ciò che sarebbe decente pretendere. Per una volta non faremo nomi di cronisti o di tiggì né citeremo servizi specifici, perché questo modo di trattare le notizie di cronaca nera è così esteso da non presupporre distinguo o classifiche di demerito. Si vorrebbe davvero capire cosa aggiunga, a una notizia dolorosa, il cinico pellegrinaggio di cronisti armati di telecamera che vagano nelle abitazioni di persone appena decedute per incidenti o fatti di sangue e sentono il dovere di indicarci la foto della prima comunione o del fidanzamento, il tutto condito da commenti tipo «ecco, qui in questa foto li vedete felici, la sognavano da tempo, l'avevano tanto sognata, questa vacanza». Non si capisce nemmeno se sia più colpa del cronista che calca l'acceleratore sulle esasperazioni emotive o di chi lo manda pretendendo l'obbligo del servizio confezionato a misura di lacrima, con overdose di strazio incorporato.

In tal caso si potrebbe consigliare alle giurie che premiano ogni anno il direttore del tiggì «migliore» di scegliere, almeno una volta, un criterio salvifico per le già tanto provate corde emotive dei telespettatori: premiare il tiggì i cui servizi di cronaca nera recuperino professionale sobrietà, smettendo di strizzare un occhio a Liala e un altro al marchese De Sade.

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