Il comizio di Bechis: "Racconto i superstiti del grande genocidio"

Il regista presenta "La terra degli uomini rossi", un film sul conflitto in Amazzonia: "Gli indios vogliono tornare nella foresta, non hanno un posto loro salvo le riserve". Portman: "Io, giovane regista, dirigo due mostri del cinema"

Il comizio di Bechis: "Racconto  
i superstiti del grande genocidio"

Venezia - È diventata un comizio la conferenza-stampa della Terra degli uomini rossi di Marco Bechis. Il regista italo-cileno ha spiegato in breve il film, poi ha ceduto la parola ai suoi attori indios guarani, perché raccontassero l'oppressione subìta da mezzo millennio. Il moderatore di turno, Enrico Magrelli, avrebbe potuto richiamare all'ordine un esponente di un popolo oppresso perché vibrava di sdegno e una esponente perché scoppiava in lacrime? Impensabile. E poi tutto si è risolto in mezz'ora, mentre ne occorrono quasi due per vedere La terra degli uomini rossi.

Siamo in Brasile, grande potenza regionale dell'America australe di cui l'italiano medio si cura per calciatori e viados. Per allargare gli orizzonti, un film che evocasse la realtà oltre Copacabana sarebbe stato dunque utile. E La terra degli uomini rossi non ricostruisce il passato - come Mission di Roland Joffé -, ma un frammento d'attualità: il tentativo degli indios di riappropriarsi di aree del Mato Grosso.

L'unico film recente al quale si può paragonare quello di Bechis è dunque La foresta di smeraldo di John Boorman. Ma Boorman aveva tenuto conto delle esigenze spettacolari, ponendo un europeo al centro e gli indios sullo sfondo. Bechis no, tenta la via di mezzo tra il film a soggetto e il documentario antropologico, dove i bianchi (fra i quali Chiara Caselli e Claudio Santamaria, doppiati) sono intrusi, più che persecutori, mentre i personaggi indios vivono un dramma più interiore che esteriore e talora s'impiccano per disagio esistenziale. Bechis non vuole far spettacolo di loro: l'ha già fatto Ruggero Deodato (Cannibal Holocaust). Però non si dirige bene un film negando che è spettacolo. A chi interesserà questa pur dignitosa compilazione d'attriti equatoriali, salvo alla giuria?

Signor Bechis, come definisce il suo film?
«Storia di sopravvissuti al maggiore genocidio della storia».

Come è passato dai desaparecidos di Garage Olimpo agli indios?
«Tramite un avvocato di Milano che mi ha messo in contatto coi loro rappresentanti. Preparo il film dal 2004».

Gli indios espulsi dalle foreste vogliono tornarci anche se non ci sono più alberi?
«Sentono che quella è la loro terra. Anche se non hanno più piume e frecce, come i bianchi li immaginano, le loro anime mantengono l'intensità di un tempo».

Dunque?

«Vogliono tornare da dove sono venuti».

Hanno lo squallore: vogliono sostituirlo con il deserto?
«Non hanno un posto loro, salvo le riserve. E la giustizia è per i bianchi, che mettono nei posti chiave i magistrati, i politici, la polizia».

Se è così, non avranno vita facile lo stesso.

«La legge brasiliana prevede che la parte di foresta non deve ridursi a meno del 20 per cento del territorio. Ora è solo il 2 per cento».

Dunque?

«Tornando al 20 per cento, si potrebbe restituire agli indios quella zona».

Quanti ettari?
«Settecentomila».

Ci saranno forti interessi su tanta terra.

«Ci sono, i veri agrari si oppongono come succede nel mio film».

La colonna sonora è suggestiva, ma non è musica india.
«Infatti.

Sono brani di Domenico Zuppolo e Andrea Guerra».

Perché li ha scelti?

«Gli autori erano missionari fra gli indios guarani e li hanno composti fra loro, che sapevano cantarli meglio dei bianchi».

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