Commuove Pinter malato nel ruolo di un moribondo

Il celebre drammaturgo inglese torna a recitare a Londra in un monologo di Beckett

Aridea Fezzi Price

da Londra

Da giovane Harold Pinter era stato un magnifico attore prima di affermarsi come il massimo drammaturgo inglese dell’ultimo mezzo secolo e guadagnarsi il premio Nobel. Malato di cancro da tempo e ormai sempre più fragile, oggi ha scelto di concludere la sua brillante carriera con un incisivo monologo di Beckett, l’autore più amato e che più di ogni altro ha avuto influenza su di lui, il drammaturgo «più importante, il più coraggioso e il più spietato», nelle sue parole. E coraggiosa e spietata è la sua interpretazione in queste sere al Royal Court Theatre di Krapp’s Last Tape, un canto del cigno che rimarrà scolpito nella storia del teatro. Così se per la cronaca abbiamo un premio Nobel inglese che interpreta il lavoro di un premio Nobel irlandese, è il vecchio attore moribondo che interpreta uno scrittore vecchio e moribondo a commuoverci in questa versione austera di Krapp, per la regia di Ian Rickson, senza sentimentalismi e senza umorismo, che rifiuta ogni compromesso con un lungo silenzio iniziale, preludio allo scorrere delle bobine e dei ricordi, i sogni, le speranze, la vanità della vita.
Una scena quasi spoglia sotto una luce crepuscolare, Krapp in vestaglia, seduto per necessità su una sedia a rotelle elettrica davanti a una scrivania coperta di scatole, un antiquato registratore e un grosso registro. Il volto di Pinter illuminato da una luce ambrata sembra un dipinto di Rembrandt, lo sguardo intenso fisso sul pubblico in un’ipnosi di qualche minuto. Poi il vecchio scrittore ascolta i nastri, la propria voce più giovane, che registra il vuoto di una vita, e avverte l’abisso fra il giovane e il vecchio, due estranei. E allora scatta con la sua voce da vecchio, si impenna con rabbia, rimugina, si disprezza, poi di nuovo si ascolta con ciglio cupo, una risata cinica, picchiettando con impazienza sul tavolo.
La scenografia di Hildegard Betchler schizza un eloquente dipinto di desolazione, da una parte scaffali senza libri, coperti di polvere, dall’altra il riflesso di altri scaffali di acciaio carichi di manoscritti e di carte. Tanto lavoro, ma nulla di compiuto, nulla che valga la pena di conservare. «Diciassette copie vendute, di cui undici a prezzo ridotto alle biblioteche circolanti oltremare. Sto facendomi conoscere». Con stoico coraggio Pinter sfoga la sua furia, butta per aria le bobine, si strugge annaspando alla ricerca di un significato che non può trovare. È l’ultimo sguardo che Krapp getta al suo passato, con la furia inquieta di un uomo che vorrebbe disperatamente riconoscersi e trovare un senso in quella voce più giovane che gli restituiscono i nastri, ma l’incipiente senilità glielo vieta.

Tutto questo Pinter lo fa sulla sua sedia a rotelle fino alla fine, quando in un magnifico sforzo si alza in piedi per inchinarsi agli applausi del pubblico. E poi barcolla, con garbo, nell’ombra e nel buio. «Tutta questa oscurità intorno a me. Mi sento meno solo», aveva detto con Krapp.

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