La concertazione? Fabbrica di danni

Il tavolo tra governo e parti sociali è una pratica vecchia di decenni che ha creato fardelli enormi per il debito pubblico

Ieri i cittadini hanno potuto sperimentare le gioie dello scioperino di tre ore finalmente proclamato da tutte le principali sigle sindacali per la «mancata concertazione» con il governo sulle misure economiche da inserire in manovra. Lesa maestà e pia illusione. Davvero pensavano i sindacati che un governo che sente cortesemente tutti, partiti compresi e poi fa quello che vuole (o, più probabilmente quello che dall’Europa gli dicono di fare) avrebbe perso tempo a farsi scrivere la manovra da loro? Da un certo punto di vista, disagi dello sciopero a parte, è meglio così, perché dalla «concertazione» sono nati alcuni dei più grossi fardelli della recente storia economica, in molti casi vere e proprie radici del perenne deficit di bilancio con conseguente creazione di debito pubblico. Per ricordarne qualcuno bisogna distinguere la «concertazione» propriamente detta, vale a dire degli accordi tra governo, imprenditori e sindacati che tagliavano in pratica fuori il Parlamento costringendolo di fatto a ratificare semplicemente decisioni prese altrove, dalla semplice fitta dialettica, non necessariamente comprendente Confindustria, che ha sempre portato ogni provvedimento governativo a passare dal rito della mediazione sfiancante del tavolo di confronto con i sindacati.

Basti ricordare che uno degli storici frutti della concertazione trilaterale fu la non rimpianta «scala mobile» che, adeguando continuativamente i salari all’inflazione diede impulso a un periodo micidiale di salite dei prezzi a doppia cifra, con uno stato connivente che poteva permettersi di aumentare il debito e la spesa confidando nella limatura inflattiva e gettando i semi per la cronica sfiducia di capitali e investimenti esteri verso l’Italia. Dopo quello che venne considerato uno dei fiori all’occhiello della concertazione, il cosiddetto lodo Scotti del 1983 ci volle poi l’autorità di un referendum (giugno 1985) per mettere una pietra sopra alla folle rincorsa dei prezzi e dei salari.

Sempre dalla concertazione vengono altri piani che hanno portato risultati che possono essere verificati toccando con mano: ricordiamo ad esempio il cosiddetto «Patto di Natale» siglato col governo D’Alema nel 1998 che aveva come scopo principale il rilancio in grande stile dell’economia del Sud. Gli esiti sono sotto gli occhi di tutti, solite infornate di assunzioni clientelari e solito fiume di denaro che si disperde in nulla. Oppure le battaglie per la contrattazione collettiva nazionale che hanno dato vita a uno mercato del lavoro con massima rigidità e minimi salari nel confronto europeo.

Dall’influenza dei sindacati sulle scelte di governo ricordiamo anche altre imprese come l’abbattimento del famoso «scalone» che, imposto a viva forza dalla Cgil al governo Prodi, comportò una spesa prospettica di 10 miliardi per conservare il privilegio (rispetto alle giovani generazioni) di un’uscita anticipata dal lavoro per chi l’impiego già ce l’aveva, col grande risultato di ritrovarsi dopo pochi anni a subire condizioni estremamente più dure da parte del governo Monti senza avere la possibilità di dire nulla. In tempi recenti ricordiamo anche l’accordo concertato per varare i fondi pensione complementari, graditi ai sindacati perché con essi si apriva la possibilità di gestire in prima persona ingenti somme di denaro e il cui successo, sia in termini di rendimenti sia di vantaggi per i lavoratori, è stato a dir poco dubbio.

Quello che però i sindacati sembrano non capire è che per «concertare» le virgole, come la soglia di rivalutazione delle pensioni e altri dettagli, si perde d’occhio lo scopo di fondo del governo Monti, condiviso e imposto dalla Germania: vale a dire il ritorno alla competitività dell’Italia tramite deflazione, che significa una sola cosa, costante e progressivo taglio degli stipendi attraverso uno stato di crisi continuo finché i salari e i costi italiani non saranno parificati alle «competitive» economie

dell’Est Europeo. Su questi temi i sindacati dovrebbero confrontarsi, non invocare la «concertazione» per suggerire ripicche spesso intrise di invidia sociale e mascherate dalla nuova parola d’ordine dell’equità.

Twitter: @borghi_claudio

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