Confessa il sagrestano cingalese: «L’ho uccisa, è stato un incidente»

Il ragazzo arrestato dai carabinieri a Brescia sotto lo studio dell’avvocato. La sua versione, però, non convince: la vittima è stata ferita alla nuca e legata. Sarebbe stata spinta per terra

nostro inviato a Brescia
Quando si dicono le coincidenze. Wimal Chamila Ponnamperumage, ovvero «Camillo», come Muhammad Saleem. Almeno nell'epilogo di quest'altra storia di follia omicida nata e finita, tempo settantadue ore, nel Bresciano. Un'altra storia che si conclude direttamente al Comando provinciale dei carabinieri, dove il giovane è arrivato ieri, poco prima delle 17, accompagnato dallo zio, al quale per primo aveva confidato, venerdì pomeriggio, ciò che era accaduto. Un altro clan di extracomunitari, poco importa se più o meno integrati, che convince il reietto di turno a costituirsi. E così ecco il superindiziato, nonché unico indiziato, del delitto, consumato nel santuario di Santa Maria a Mompiano, che varca la porta della caserma. I carabinieri lo hanno ammanettato in corso Magenta, sotto lo studio dell’avvocato Marco Capra che Camillo avrebbe voluto incontrare per concordare una linea di difesa prima di costituirsi. Lo sguardo vagamente ebete di chi ha perso la rotta, ma che, dopo un’inutile fuga, ha deciso comunque di presentarsi per scontare il suo debito con la giustizia. Scarpette da ginnastica, jeans e una maglietta bianca non proprio immacolata. Esattamente come la coscienza di questo sagrestano cingalese di 22 anni, che si è trovato ieri a spiegare al sostituto procuratore Paola Reggiani, che gli ha contestato l’omicidio volontario, come e perché Elena Lonati, 23 anni, giovane e bellissima maestra d'asilo è morta nella Chiesa di Santa Maria. «Il mio cliente si è autoaccusato dell'omicidio e ha reso piena confessione. Ha parlato a lungo con un filo di voce, ed è clamorosamente pentito», ha dichiarato il legale del cingalese, lasciando in serata la caserma dei carabinieri. Secondo l’avvocato Capra, Camillo ha ribadito la sua versione: «Ha perso la testa - ha detto - non c’è stato alcun tentativo di violenza, ma una colluttazione degenerata dopo la discussione avuta con la ragazza che non voleva uscire dalla chiesa». Certo sembra strano che, se è vero che si è spaventato quando ha visto Elena a terra sul sagrato, Chamila abbia trovato come unica soluzione quella di avvolgere l’«incidente», ovvero il corpo, incaprettato e incerottato, in tre sacchi della spazzatura e di sistemarlo, lontano da sguardi indiscreti, accanto ad un pulpito in disuso, in un vano di cui soltanto lui, in quanto custode, possedeva la chiave. Un litigio banale, innescato da Camillo, mitissimo e devotissimo cattolico, a sentire il suo «datore di lavoro», il parroco don Cesare Verzelletti? Se la versione del sagrestano è davvero la verità, ci sarebbe da domandarsi come mai un tipo mitissimo, vista scoccare l'ora di chiusura della chiesa, si cali improvvisamente nei panni di un buttafuori da discoteca e cacci in malo modo una sua coetanea che vuole soltanto accendere un cero alla Madonna. La perizia medica sul cadavere di Elena non sembra migliorare la posizione di Camillo: c’è una ferita sulla nuca, compatibile con una caduta violenta, vero. Ma non è stata quella ferita a provocare la morte della maestra d’asilo, che amava i bambini e il volontariato. Elena, si legge nell’autopsia, è morta per soffocamento dopo un’ora di straziante agonia. Per colpa di quel nastro marrone che Camillo le ha serrato, con inspiegabile violenza, attorno ai piedi, ai polsi, al collo e sulla bocca. Da quando, avant’ieri, è balzato fuori dall’auto dello zio che lo aveva già convinto a costituirsi, Chamila ha vagato per Brescia e la provincia. Gli uomini del colonnello Mauro Valentini, in verità piuttosto impegnati in questi giorni, dovranno appurare se abbia ricevuto l'aiuto di qualcuno oppure se abbia dormito all’addiaccio prima di presentarsi nello studio dell’avvocato Capra. Nella notte di sabato il giovane, per cui l’avvocato chiederà una perizia psichiatrica, avrebbe anche tentato il suicidio ingerendo venti aspirine.

Resta il fatto che a favorire la fine della latitanza sono stati anche gli appelli fatti della comunità cingalese e dei sacerdoti della Curia bresciana, che lo avevano invitato a costituirsi. «La comunità cattolica ce l'ha fatta a convincerlo - ha dichiarato don Mario Toffari, punto di riferimento per gli immigrati a Brescia -, spero che il tempo che trascorrerà in carcere lo farà maturare».

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