Il conflitto d’interessi degli industriali

In Confindustria non si discute solo di elezioni. Il piccolo establishment (cioè il raccordo di potere tra settori della grande industria indebitata e della finanza, che domina la stampa «indipendente») pesa sul vertice della associazione degli imprenditori, e ha deciso - come si deduce dagli orientamenti del Corriere della Sera - di appoggiare il centrosinistra. Questo non piace alla maggioranza degli imprenditori. Ma il prototipo dell'industriale italiano è liberale: riconosce a tutti il diritto di votare per chi gli pare. A Vicenza finisce sotto tiro non l'orientamento elettorale dei singoli, ma la condotta della confederazione nel suo complesso.
Per esempio l'idea di Andrea Pininfarina di far balenare un'uscita dell'Italia dal G8. Ipotesi fantasiosa: mai l'Italia è stata così utile ad americani, inglesi, russi, giapponesi e ora anche ai tedeschi. Non esiste alcuna spinta, oggi, a fare a meno di un Paese che ha una funzione così preziosa. Ma oltre a non essere vero, l'evocare l'uscita dell'Italia dal G8 ha un tono così oscenamente antinazionale da colpire chi del prestigio del proprio Paese fa un elemento anche della sua attività commerciale.
Ma al di là dell'estremismo antinazionale, larga parte della base confindustriale disapprova la linea che traspare anche dal rapporto con i partiti. Un'associazione d'imprenditori che invece di fare il proprio mestiere (sintetizzare le posizioni tra i diversi comparti dell'industria italiana: quelli non indebitati e quelli più bancodipendenti, quelli immersi nel mercato e quelli protetti da qualche tipo di oligopolio, e fare proposte per la categoria) si butta a «fare politica» come dice Luca Cordero di Montezemolo, sia pure «senza schierarsi», che invece di ragionare sul concreto (come sul sistema di contrattazione nazionale) lancia «fasi costituenti», suggerisce a tanti imprenditori l'idea che un pezzo del gruppo dirigente confindustriale, ben lungi dal volerli rappresentare voglia usare il suo potere solo a fini di influenza personale (o aziendale).
Un solo esempio: una delle grandi riforme ottenute dalla vituperata Confindustria damatiana è stata quella delle pensioni, con lo spostamento dell'età pensionabile a 65 anni: riforma difficile, non come quella di Lamberto Dini, Cgil e centrosinistra (nello sbando del centrodestra) che scaricava sui trentenni tutti i sacrifici. Grazie a questa riforma l'Italia gode di un grande rispetto a Bruxelles. Di tutto ciò non vi è traccia nelle analisi dei montezemoliani (né nei commenti della stampa «amica»). Perché? Perché l'interesse della Fiat è quello di usare i prepensionamenti e questo viene prima di tutto: dei problemi del Paese, di quelli della pluralità delle imprese.
Montezemolo è stato eletto presidente di Confindustria anche perché il gruppo Mediaset ha pensato - dopo la stagione movimentista (ricca di risultati al contrario di quella attuale) - ci volesse una fase di assestamento. E che al Lingotto servisse anche un po' di ribalta per mettere ordine in una situazione catastrofica. Quest'ultimo obiettivo, per fortuna, è stato raggiunto. Ma un atto pro-concordia è stato interpretato come il definitivo seppellimento della spinta movimentista e come un segno di debolezza. Una lettura sbagliata della realtà.

Il cuore dell'industria italiana è fatto di tipi alla Polegato, non di gente che briga per essere in Generali, Rcs, o che entra in Bnl non per costruire una nuova forte realtà italiana ma per vendere la banca a «Spagna o Franza». I Polegato sono tipi tranquilli, fanno assai bene il loro mestiere. Attenti, però, a non incorrere nella loro ira.

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