Il conflitto d’interessi familiare del giovane Colaninno

Come ministro-ombra di Veltroni ha sparato contro la cordata «inesistente». Che si è materializzata nel salotto di casa sua

da Roma

Le colpe dei figli non ricadano sui padri. Per essere uno dei fiori all’occhiello del governo ombra di Veltroni, il giovane imprenditore Matteo Colaninno negli ultimi giorni sembra più che mai reciso. Sradicato fin nei precordi.
Papà Roberto, alias uno dei «capitani coraggiosi» della «razza padana» vagheggiata da Massimo D’Alema, sarà il presidente della New company Alitalia. Il partito di cui Colaninno figlio fa parte, il Pd, inviperito grida al «bluff». E lui, il povero rampollo-ministro virtuale, è ombra di se stesso.
Un conflitto d’interessi in piena regola. Regolato da Matteo con la stessa tecnica usata da Berlusconi (e sempre criticata dal Pd) nelle occasioni in cui il Consiglio dei ministri trattava argomenti che riguardavano le televisioni. Così, quando ieri si è riunito il consiglio d’amministrazione dell’Immsi (ramo immobiliare), cassaforte di papà Roberto, si sono presentati tutti i consiglieri, tranne uno: appunto Matteo. Come recitare due parti nella stessa commedia? Come essere servo di due padroni, specie se uno è il papà? Il giovane imprenditore trentasettenne, che evidentemente ha letto poco Goldoni, sfugge, tace e acconsente. Proprio mentre tutti gli altri suoi colleghi ministri-ombra promettono fuoco e fiamme.
I tormenti del giovane Colaninno, il suo stare con i piedi in Parlamento nel gruppo Pd e con le orecchie dentro la bella villa mantovana, sono cominciati già da qualche mese. Si era in piena campagna elettorale, e il Cavaliere con un colpo a sorpresa aveva lanciato l’idea vincente di non svendere la compagnia di bandiera ad Air-France. Una soluzione sulla quale persino la Sinistra Arcobaleno si era detta d’accordo, e di sicura presa elettorale. Colaninno junior evidentemente doveva conquistarsi il posto nella squadra veltroniana (la «nomination» di Walter risaliva al 14 febbraio) e dal suo sito lanciava idee sull’intero mondo. In particolare, il 21 marzo, paventava il rischio di perdere l’offerta di Air France: «L’offerta è dura, ma il presidente di Air France non è il buon samaritano. Ovviamente mi auguro che emergano altre offerte solide, altrimenti però rischiamo di perdere questa e quindi di mettere Alitalia di fronte al fallimento e l’intera Italia di fronte a una figuraccia...». L’8 aprile, Matteo prendeva coraggio: «L’accordo con Air France è una grandissima opportunità per Alitalia e per il nostro Paese, la soluzione dei problemi economici e finanziari della compagnia... Al contrario un’ipotetica cordata di imprenditori italiani, che non si è mai manifestata, non avrebbe mai potuto risolvere i problemi industriali di Alitalia». Il 22 aprile, ad elezioni avvenute, il futuro rampollo-ombra seguiva la scia veltroniana, e se la prendeva con Berlusconi, perché «a forza di annunciare cordate inesistenti... si è finito col creare una situazione che ora pesa sull’occupazione di decine di migliaia di persone...».
Da allora, più nulla. Lingua inghiottita, occhi chiusi, naso evidentemente tappato. Come le orecchie, presumibilmente raggiunte dalle voci dei primi abboccamenti di papà Roberto con il nuovo governo. Trattative durate per qualche mese. E lui, il Matteo silente, sempre più deciso a non farsi strappare una parola in più sulla vicenda. Di cui, però, cominciava a sapere molto. Notizie riservate, ma in netto contrasto con il ruolo pubblico di ministro virtuale dello Sviluppo (secondo rito veltroniano).

Che fare? Informare Walter (ma era già informato)? Denunciare l’«inutilità» di una «cordata inesistente», che ora si materializzava proprio in casa sua, nel salotto di papà? Tra il dire e il fare, Matteo ha deciso lo scomparire. Che in alcuni casi, poi, è sempre la soluzione migliore.

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