La contagiosa sfiducia dell’Unione

La crisi di fiducia che ha investito Romano Prodi dice che l’Unione ha rivelato di essere un fattore di confusione e di insicurezza. E che ha creato un vuoto nella politica. Il metodo del suo leader, la debolezza dei suoi due maggiori partiti, il predominio delle sue culture massimaliste e dirigiste, il deficit di innovazione e di progettualità sono le caratteristiche negative di un’esperienza che, dopo pochi mesi di governo, non riesce a delineare una prospettiva. Quello che era un impegnativo progetto controriformista, contro le riforme del centrodestra, si è impantanato apparentemente sull’esiguità della sua maggioranza in Senato, in realtà sulla mancanza di idee. Però in un regime bipolare, soprattutto se frantumato come quello italiano, quando uno dei due schieramenti entra in sofferenza, anche l’altro ne risente. L’opposizione è oggi favorita dal clima sociale, dal rifiuto generalizzato della Finanziaria.
Ma basta scommettere su una possibile alternanza, senza sapere quando ce ne sarà l’occasione e in assenza di altri soggetti capaci di azioni coerenti ed efficaci? Penso, ad esempio, a Montezemolo. Se avesse voluto davvero puntare su un’evoluzione politica, gli sarebbe bastato non firmare l’accordo sul Tfr, configurando un’alternativa diversa rispetto a quella rappresentata da Berlusconi. Ma non ne ha avuto il coraggio ed è svanita l’illusione neo-centrista, perché il vuoto aperto dall’Unione ha creato una situazione di tale incertezza e di tale confusione, per cui tutto è complotto, tutto è dietrologia, tutto è formula, come «la fase 2» coniata per far dimenticare l’ideologia «redistributiva» della manovra.
Nello stesso modo, corrono ora il rischio di ridursi a puro strumento tattico i due quesiti referendari, depositati in Cassazione e destinati a modificare la legge elettorale in vigore. Erano stati ideati per correggere il Proportionellum, oggi appaiono come una terapia per la crisi del centrosinistra: trasferire il premio di maggioranza dalla coalizione ad una singola lista significa obbligarlo a costruire il Partito democratico. È la proposta di una scorciatoia, che rimbalza anche sull’altro versante dove si è arenato il progetto del Partito delle libertà. Ma, per restare alla sinistra, c’è da ricordare che, dalle ultime europee in poi, il simbolo dell’Ulivo ha sostituito quelli di Ds e Margherita, è diventato cioè il simbolo prevalente, senza però ottenere alcun effetto reale sul terreno della stabilità e su quello della progettualità. Anzi, la questione della fragilità e dell’inconsistenza del riformismo si è aggravata.
Non basta dunque affidarsi alla tecnica elettorale. Ieri Emanuele Macaluso, dalle colonne del Riformista, ha segnalato tutta la debolezza del metodo di affidare allo strumento referendario il futuro del sistema politico italiano. Così come un segno di debolezza è il benvenuto dato ai promotori dell’iniziativa da forze politiche, prigioniere di una storica pigrizia innovativa, che si sentono così condannate a cercare un’intesa che altrimenti avrebbero difficoltà a trovare.
Ma al di là delle discussioni sull’utilità o meno di questa nuova chiamata alle urne e sulle sue possibilità, c’è un dato che non può essere trascurato. Un referendum elettorale può essere molte cose, anche la spia di una crisi di sistema. Oggi i segni premonitori di questa crisi ci sono tutti. È il fallimento del governo Prodi a trascinare un giudizio fallimentare su uno schieramento e sulle sue leadership.

Ma il problema non può non riguardare l’opposizione: quanto più dura l’Unione, quanto più divide e spacca socialmente e geograficamente l’Italia, tanto più c’è il rischio di un logoramento generale della politica.
Renzo Foa

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