Errori giudiziari, 80mila casi Tortora

Solo nel 2023 lo Stato ha versato 28 milioni di risarcimenti per ingiusta detenzione

Errori giudiziari, 80mila casi Tortora
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Bisognerebbe andarlo a dire a Giuseppe Idà, che dedicare un giorno alle vittime della malagiustizia rischia di «ledere il prestigio della magistratura»: come dice Peppe Santalucia, presidente dell'Anm, il sindacato dei giudici. Il giorno che il Parlamento vuole dedicare a chi è finito senza aver fatto niente di male nel tritasassi dei processi è il 17 giugno, anniversario dell'arresto di Enzo Tortora, il presentatore divenuto simbolo della giustizia ingiusta. Ma quando Tortora venne assolto, dopo quattro anni di incubo, la notizia almeno finì in prima pagina. Invece due settimane fa l'assoluzione di Giuseppe Idà non se l'è filata nessuno: era il sindaco di Rosarno, in Calabria, lo arrestarono a gennaio 2021 nell'operazione Faust per voto di scambio politico-mafioso, sciolsero il consiglio comunale per infiltrazioni della 'ndrangheta, al processo hanno chiesto tredici anni di carcere. Il 26 novembre scorso viene assolto con formula piena. La notizia finisce in cronaca locale.

Le statistiche dei «casi Tortora» sono note da tempo, implacabili: ottantamila persone finite in carcere e poi assolte, lo Stato che solo nel 2023 viene condannato a pagare quasi 28 milioni di risarcimenti per ingiusta detenzione. Mediamente, il 10 per cento di chi finisce in cella è innocente, una percentuale da brividi. Dentro la crudezza delle cifre ci sono centinaia di storie personali, di vite spezzate da accuse ingiuste che almeno tre uffici giudiziari (ma a volte molti di più) hanno scambiato per verità. Alcune storie diventano celebri come quella di Beniamino Zancheddu, il pastore sardo che ha scontato trentatrè anni per un delitto non commesso. Altre comunque riescono a venire a galla, tutte diverse e tutte simili, colletti bianchi e cittadini qualunque. Pietro Tali, manager pubblico, viene indagato due volte e due volte assolto, la seconda volta lo avevano anche arrestato: vita e carriera spedite in discarica. Il comasco Andrea Binda viene arrestato nel 2016 per un delitto di trent'anni prima, lo tengono in galera per tre anni, poi lo assolvono: quando chiede il risarcimento glielo scorciano perché durante il processo avrebbe avuto un atteggiamento «confuso». Il muratore tunisino Mounir Knani a Firenze si fa tre anni di carcere per rapina, condannato in tre gradi di giudizio, serve il processo di revisione per accertare che il giorno del delitto era da tutt'altra parte. Il mestiere più a rischio di tutti è quello di sindaco: come il primo cittadino di Rosarno vengono messi in galera e poi assolti i sindaci di Campagnatico, di Bari, di Lodi, di Torretta, di Villa Literno, di Pietrasanta, di Campobello di Mazara, di Caserta, e l'elenco potrebbe andare avanti a lungo, da un capo all'altro del Paese, in una Spoon River di carriere troncate dalle manette e mai più ripartite.

E il dato statistico racconta solo un pezzo della storia: perché sul conto della malagiustizia vanno messi anche gli imputati che non vengono spediti in carcere ma travolti dagli avvisi di garanzia, costretti a dimettersi, ad affrontare anni e anni di processi da cui escono assolti ma devastati. Ci sono quelli che riescono a risollevarsi, quelli che invece somatizzano, si ammalano e alla fine muoiono. Come Filippo Penati, presidente pd della Provincia di Milano. Come Giovanni Bernini, assessore a Parma, incriminato nell'inchiesta Aemilia. E tanti altri, gente qualunque che non riesce a sopravvivere all'accusa ingiusta.

Ricordare queste vicende, dice Santalucia, sarebbe «come se volessimo istituire una giornata in memoria delle vittime di errori diagnostici»: danni collaterali inevitabili, insomma, più dato statistico che tragedie umane.

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