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Turchi contro curdi, israeliani contro Isis. La "nuova" Siria è già un Paese dilaniato

Gli Usa mediano un accordo tra l'esercito nazionale di Damasco finanziato da Ankara e Ypg. Altri raid di Tel Aviv

Turchi contro curdi, israeliani contro Isis. La "nuova" Siria è già un Paese dilaniato
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Di chi sarà la Siria? O meglio in quante parti si dividerà l'ex regno degli Assad? La domanda è assai poco peregrina. Per capirlo basta munirsi di una cartina e guardare quanto succede sul terreno. Partiamo dai fatti apparentemente rassicuranti. Innanzitutto l'accordo siglato ieri, con la mediazione degli americani, per garantire un cessate il fuoco tra le milizie del Syrian National Army (Esercito nazionale siriano) e quelle curde impegnate a difendere quanto loro resta della città di Mambij nel Nord del Paese. Il tutto però partendo da un dato di fatto. Il cosiddetto «Esercito nazionale siriano» che combatte i curdi, di «siriano» ha ben poco. Si tratta di una formazione mercenaria composta da ex militanti dell'Isis e jihadisti vari al soldo dei servizi segreti turchi. Ed ha come unica finalità l'occupazione di tutte le zone curde alla frontiera con la Turchia per crearvi un zona cuscinetto, profonda fino a 25 chilometri, che garantisca i confini di Ankara. Insomma si tratta di una forza d'occupazione totalmente fuori dal controllo di Abu Mohammed Al Jolani e degli attori che a Damasco sembrano governare il Paese. Non a caso per risolvere il «problemino» di Mambji è dovuta intervenire un'amministrazione americana costretta a far la voce grossa con una Turchia sempre più restia a comportarsi da vero alleato della Nato.

E qui si nasconde il problema. Il vero padrone della Siria non è l'ex terrorista di Al Qaida Al Jolani, ma il signor Recep Tayyp Erdogan presidente della Turchia. Sono stati i suoi servizi segreti a mediare con il Qatar per garantire all'ex emiro di Al Qaida i denari con cui ha armato i suoi uomini. E sono stati sempre loro a spartire ai capi dell'intelligence militare di Bashar Assad le bustarelle indispensabili per garantirsi l'immediata resa delle guarnigioni responsabili della difesa di Aleppo, Hama, Homs e Damasco. Il tutto nell'ambito di una regia che ha ricordato assai da vicino quella messa in scena in Afghanistan nell'agosto del 2021. Il tutto mentre tra Ankara e Mosca veniva intessuta una complessa trattativa che spaziava dalle intese per l'addio di Mosca alla Siria a quelle per il prossimo negoziato sull'Ucraina. Insomma Al Jolani, per quanto abile nel riciclarsi, dovrà tra breve abituarsi a servire più padroni.

Anche perché alle mire della Turchia fanno da contraltare le paure di Israele. Benjamin Netanyahu dopo il 7 ottobre ha imparato a diffidare di Doha. E non dimentica le ambizioni di un Sultano deciso a restaurare i fasti dell'impero Ottomano. Non a caso ha mandato i carri armati a occupare tutta l'ex fascia «demilitarizzata» che divideva le alture del Golan annesse da Israele da quelle rimaste a Damasco. Jolani ha perso, insomma, un'altra fettina di territorio. Ma non è il danno peggiore.

L'abitudine turca di usare i gruppi jihadisti per realizzare le proprie mire geopolitiche rischia di trasformare la Siria in una complessa linea del fronte dove Israele anziché dare la caccia, come un tempo, a Hezbollah e pasdaran iraniani colpirà invece le milizie pronte a mettere a rischio i suoi confini o i suoi interessi. Il tutto mentre nei deserti dell'Est gli Stati Uniti hanno già rincominciato a bombardare lo Stato Islamico.

Più che una nazione liberata la Siria di Al Jolani sembra insomma una nazione dilaniata.

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