Il contemporaneo in ritardo

Continua, sfrontata e insolente, la campagna diffamatoria, nei miei confronti, di Gianfranco Politi che si è autoproclamato direttore della «prima rivista d’arte in Europa». Prima in che senso? In ordine di tempo? Di qualità? Di tiratura? Forse non ha mai letto o sfogliato il Burlington Magazine, Paragone, Apollo, e neanche il Giornale dell’Arte. Però dall’altezza delle sue illusioni rappresenta una realtà deformata e irreale di Milano attribuendo a me tutte le colpe di scelte che non dice e che gli appaiono di «bassissimo livello». D’altra parte egli considera, non si sa sulla base di quali titoli e di quali imprese, Massimiliano Gioni e Francesco Bonami (noti soprattutto per non aver mai espresso un pensiero) «persone di qualità indiscussa e indiscutibile» (da chi?).
Sulla base di queste solide convinzioni egli dichiara che «un tempo le barriere tra il buono e il meno buono erano nette e invalicabili (sic!). Ora le barriere sono state tolte e i buoi sono scappati». Da questi alti concetti preliminari (che ignorano, tra gli altri, i principi, tipici della contemporaneità, della contaminazione) egli conclude con grande magnanimità e lungimiranza che «oggi il livello dell’arte italiana è il più basso del mondo occidentale e non c’è un solo artista nostro (eccetto Cattelan e la Beecroft) con una minima visibilità internazionale». In questa situazione maturano «iniziative di basso profilo che prosperano e che servono solo a creare confusione tra i più e a convincere la gente a pensare che Sgarbi è come Francesco Bonami». Quest’ultimo addirittura «ha accettato un dibattito, facendogli peraltro da megafono, con Vittorio Sgarbi (e dove lo Sgarbi ne è uscito anche trionfatore)».
A parte la grammatica e lo stato di confusione preoccupante, incontenibile, e perfino commovente, il Politi sembra ignorare che, in questo momento, a Milano, negli spazi pubblici e nelle fondazioni, si possono vedere: Boccioni, Tamara de Lempicka, Arturo Martini, Miró e Chagall, Buzzati, Albini, Hartung, Basquiat, Henri Cartier Bresson, Kounellis, Serrano, Dani Karavan, Grazia Toderi e che all’Hangar Bicocca la Pirelli ha definitivamente acquisito le torri di Kiefer. Mi dica cosa si vede a Praga, oltre alla biennale da lui organizzata e autopromossa con il sostegno di Prada. Cosa sia l’arte «contemporanea» non lo stabilisce il suo punto di vista, e neanche il suo pregiudizio. «Contemporaneo» non è un valore ma una condizione temporale e temporanea, appunto. Sono contemporanei Masaccio e Masolino, Caravaggio e il Cavalier d’Arpino, Longhi e Balla. Non c’è uno più contemporaneo dell’altro, c’è un più bravo e un meno bravo, semmai, nell’ampio registro della storia in cui sono sia i rivoluzionari sia i conservatori, in quanto sono stati. Soltanto nel nostro secolo il mercato e le sue mafie hanno stabilito inclusioni, esclusioni e preclusioni, così da dare fondamento a un’eresia concettuale come quella di chi dice: «Mi riferisco all’arte contemporanea così come oggi è definita dal sistema internazionale dell’arte». Da questo «sistema» sono ovviamente esclusi artisti di valore come Gaetano Pompa, Eugène Berman, Werner Tübke, Domenico Gnoli, Romano Parmeggiani, Antonio López Garcia e, anche, Gustavo Foppiani e Armodio, Tullio Pericoli, Roberto Innocenti ma anche (non si capisce in cosa inferiore a un Cattelan), Oliviero Toscani. Quanto all’attività musicale, a Milano, Politi doveva essere distratto se non si è accorto che, nell’arco di poche settimane di tempo, hanno suonato Barenboim, Chailly, Pollini, Boulez, Brendel, Schiff, Harding, Gil e Orli Shaham. Nel frattempo il suo amato Massimiliano Gioni si è espresso con una ammiratissima mostra di Paola Pivi popolata di oche, cavalli, anatre, mucche, cani, pesci, civette, elaborando uno zoo per non rischiare di dover proporre un pittore (che sarebbe stata, ovviamente, una scelta di «bassissimo livello»). D’altra parte Politi si era preoccupato che i buoi fossero scappati. La Pivi si è impegnata a trattenerli. Penso ora a quanti artisti italiani, o sedicenti tali, hanno pagato la pubblicità sulla «prima rivista d’Europa» e ora scoprono che «il livello dell’arte italiana è il più basso del mondo occidentale».
Uno credeva di essere Pistoletto, Montani, Cucchi, Clemente, Paolini, o anche soltanto Valerio Adami, Towmbly, Kounellis, Guccione, Vangi. E invece niente, il «primo» direttore ha incoronato Cattelan e la Beecroft. Tutto il resto è colpa mia. Perché perdere tempo a far conoscere il genio di Luigi Serafini o il talento di Aron Demetz, Stefano Mosena, Osmo e i graffitisti del Leoncavallo, Ducrot, Nicola Samorì, Andrea Martinelli, e altri, per lo più ignoti al Politi? Il sacerdote ha parlato e ha scomunicato l’eretico che non si vuol convincere dell’arte funeraria sopravvissuta allo sterminio di chi considera di cattivo gusto e di qualità infima quello che non conosce, quello che non vede e quello che non capisce.

Oltre a tutto quello che non sa, della storia dell’arte che è, naturalmente, contemporanea. Perché è davanti a noi. E, quando non ci saremo più, sarà ancora lì. Intanto, Politi si affanna a cercare di riconoscere ciò che è «veramente» contemporaneo, ignorando di essere in ritardo anche rispetto a Caravaggio.

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