Corso spontaneo di formazione politica

A mezzanotte un gran vociare sotto la finestra del mio studio mi obbliga ad abbandonare il lavoro notturno, per me molto proficuo, e ad affacciarmi alla finestra per vedere quello che sta succedendo.
Sono voci sguaiate e allegre, di ragazzi e ragazze tra i venti e i venticinque anni. Devono essere appena usciti dalla pizzeria all’angolo o dal pub dietro casa mia, e una discussione sorta probabilmente quando ancora sedevano intorno al tavolino li trattiene adesso dal salutarsi.
La discussione, condotta sul filo dell’ironia e con frequenti scoppi di risate, tratta di politica. È una bella serata, con molta gente ancora in giro da queste parti. I platani del viale stormiscono debolmente, e un filo d'aria rinfresca questo finale di giornata caldissima. Anch’io me ne sto volentieri qui, ad ascoltare le parole, molto interessanti, che salgono ben distinte fino a me.
Non so di cosa abbiano parlato finora, ma adesso il discorso tratta di Berlusconi e della Lega. I ragazzi che discutono sotto il mio naso sono evidentemente tutti di sinistra: i giudizi sui due soggetti non lasciano dubbi. Sono ragazzi informati: guardano il tg, leggono il giornale, parlano dei recenti scandali in modo non generico, scendono nel dettaglio.
Uno di loro deve studiare Giurisprudenza, un altro Scienze politiche. I loro giudizi non si allontanano da quelli espressi dai loro giornali di riferimento, che citano a più riprese. Tutti sono concordi sul fatto che i sacrifici che il governo chiede al Paese sono inutili, e la ragione è che le manovre finiranno per toccare sempre le stesse persone, quelle che pagano già, mentre i nullatenenti possessori di yacht a Porto Cervo possono dormire sonni tranquilli.
Occorre giustizia fiscale, dice uno. «Ecchevvordì?», si sente da dietro. «Vordì» gli risponde facendogli il verso «che un sistema fiscale fondato sulle imposte indirette, all’americana, metterebbe in difficoltà tutti quei ladri».
Ma nel gruppo c’è un marx-leninista. È una ragazza piuttosto carina. Si dice contraria a quel sistema che finirebbe per privilegiare demolire il welfare (sic) e favorire i ricchi. Parla di mezzi di produzione, di sottoproletariato, di plusvalore. Parole vecchie come il cucco, ribatte il primo: «Ma che ti credi, di essere ancora al tempo delle vecchie industrie? Mi sa che ti sei persa il secondo tempo del film».
Ma un altro difende la ragazza: «Oggi si parla tanto di tutto meno che di lavoro e di lavoratori».
«Ma se il lavoro» insorge quello delle imposte indirette «tra un po’ non esisterà nemmeno più? Che c... dici?».
I due alzano la voce, e devono mettercisi tutti gli altri per riportare la discussione su toni civili.
Io sto ad ascoltarli rapito, e non sono più contrariato per la concentrazione che mi hanno fatto perdere.
Dall’evasione fiscale si passa alle sue cause. Quello che secondo me studia Scienze politiche sostiene che la causa dell’evasione sta nel cattivo rapporto tra stato e cittadini, un rapporto fondato sul sospetto: in pratica, lo stato cerca di fregare il cittadino prima che il cittadino freghi lui.
Non tutti sono d’accordo. Quello più allegro, che grida più degli altri, dichiara che siamo un paese di babbei, e che i provvedimenti presi per limitare le ingerenze mafiose negli apparati pubblici si sono rivelati un invito a nozze proprio per la mafia e la camorra.
«Bum!» fanno tre ragazze in coro. Dev’essere un gioco abituale tra loro.
«E invece vi dico che l’obbligo alla trasparenza per esempio sulle gare d'appalto per i lavori pubblici ha favorito i criminali».
«Bella questa» lo sfotte una ragazza, ma lui continua.
«Mettono in piedi società fittizie che vincono sempre gli appalti perché fanno l'offerta più bassa, poi subappaltano i lavori».
«Ma se i soldi sono pochi chi lo vuole il subappalto?».
«A questo punto entra in gioco la criminalità, che ai soldi pubblici aggiunge i suoi, neri. Fanno agli operai: ti fa niente se in parte ti paghiamo in contanti? E quelli: come no. A chi non piace il denaro contante? Non so se avete capito».
Una ragazza dice che suo papà è disperato perché dall’Appennino in poi non ci sono imprese. La gente si ammazza per il posto fisso allo stato. Poi una volta raggiunto l’ufficio non fanno più niente, tanto chi li ammazza più? Vai negli uffici ed è tutto un il dottore non c’è, o la dottoressa è fuori ufficio, o l’ingegnere è malato.
Quello che grida dice che suo papà ha visitato una regione del sud dove devono costruire un aeroporto. Ci sono alcune aviosuperfici, dove naturalmente non atterra né parte nessun aereo, però ci sono edifici con gente che ci lavora. «Che è questa roba?» domanda all’autista. E quello: «Uffici». E suo papà: «Uffici di che?». E quello: «Dell’aviosuperficie». Impassibile, come se fosse la cosa più normale del mondo. E quando suo padre gli domanda a che servono gli uffici visto che non ci sono aerei, quello si stringe nelle spalle: «Evidentemente qualcosa da fare ce l’hanno».
La discussione continua con le parole «spesa pubblica» che si innalzano sulle altre. Scandalo, indignazione, delusione dominano i ragionamenti. Una volta abbandonate le dichiarazioni di principio e i padri nobili, le loro opinioni si rivelano molto simili a quelle che avevano detto di odiare: se mai un bel po’ meno liberali e un bel po’ più forcaiole. Di sinistra in teoria, di destra nella pratica.
***
È una bella notte di mezza estate, certo, e tutto può succedere: forse Oberon si trova di passaggio tra questi platani e con la sua polverina si è divertito a confondere le idee di questi ragazzi.
O forse la verità è un’altra, e cioè che la formazione dei giovani oggi passa molto meno di un tempo attraverso i canali tradizionali: famiglia, scuola, università, libri.
Quando ero ragazzo tutte queste cose mi fornivano non soltanto nozioni, ma il metodo, gli strumenti, le categorie per affrontare la realtà. Ascoltando questi ragazzi piuttosto preparati si ha invece la sensazione che scuola, famiglia, libri servano da premessa, da compendio di buone intenzioni, ma che il vero metodo di affronto del reale lo insegni solo la vita quotidiana.
Un tempo si diceva che per certe persone la sola maestra è stata la strada. A me sembra che anche da noi si stia tornando a quel punto. Forse le nostre strade sono più raffinate di quelle di un tempo, ma alla fine sono strade. E la strada, evidentemente, oggi parla una lingua diversa da quella dei padri nobili.
Siamo a un passaggio antropologico che cambierà il senso stesso della parola «cultura». Oggi bene o male qualcuno cerca ancora di gestire il flusso, ma secondo me ha il tempo contato.


Mi trovo sempre alla finestra quando un altro ragazzo di passaggio, parlando al telefonino, grida: «Se sapevo che cercavano un gelataio a Londra, col c.... che mi laureavo!».
È la conclusione che aspettavo per questo mio racconto.

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