«Così scampai all’orrore del lager di Ravensbrück»

La toccante testimonianza di Mirella Stanzione L’iniziativa voluta dal presidente della Provincia Enrico Gasbarra

nostro inviato a Ravensbrück
La matricola la conserva ancora. Una fettuccia di stoffa ingiallita da sei decenni con il numero 77415 e il triangolo rosso che indentificava i prigionieri politici, che lei tiene in una bustina di plastica trasparente di quelle che si usano per i bottoni, per le forcine, per le minuzie. Ma non è una minuzia quel pezzo di cotone: è la memoria di quando a Mirella Stanzione, 80 anni, spezzina che da quasi quarant’anni vive a Roma, tentarono di togliere tutto, la libertà, la giovinezza, la dignità, per trasformarla in quel numero. Avvenne più di sessant’anni fa al campo di sterminio nazista di Ravensbrück, a nord di Berlino, dove Mirella fu deportata il 7 settembre 1944, dopo essere stata arrestata qualche settimana prima con la madre al posto del fratello Auro, partigiano. Da quel campo di orrore e morte Mirella uscì alla fine di aprile del 1945 come si usciva da quei posti: per caso, per capriccio, per coraggio. Quando fu deportata a Ravensbrück Mirella aveva più o meno la stessa età dei 130 studenti di 13 scuole della provincia di Roma che con lei sono giunti a visitare quel che resta del campo. Dieci studenti per ogni istituto - di Roma, di Cerveteri, di Frascati, di Ladispoli, di Marino, di Palestrina, di Subiaco, di Tivoli - scelti dai compagni per storia personale (molti di loro hanno nonni o bisnonni deportati), per interesse, per sensibilità, per profitto. Insomma, la meglio gioventù. E forse non sarebbe stato male se tra essi ci fosse stato qualcuno di quegli stupidi che disegnano svastiche sui muri della scuola. «Tornate e dite loro che quelli che usano senza conoscere sono simboli di morte», li esorta Enrico Gasbarra, presidente della Provincia di Roma. Che ha organizzato questo viaggio della memoria al quale hanno partecipato anche l’assessore alla Scuola Daniela Monteforte, i consiglieri provinciali Tiziana Biolghini e Giancarlo Bozzetto, il presidente del XII municipio Patrizia Prestipino, il presidente della sezione Lazio dell’Associazione nazionale partigiani Massimo Rendina, il presidente della sezione Lazio dell’Associazione nazionale ex deportati Aldo Pavia, il portavoce della comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici, e due religiosi: il rabbino della comunità ebraica di Roma Crescenzio Di Castro, e il rappresentante della segreteria di Stato del Vaticano monsignor Giovanni D’Ercole: i quali hanno pregato insieme, ognuno a suo modo, per onorare la memoria dei circa 100mila deportati morti a Ravensbrück dal 1939 al 1945. Quasi tutti ebrei, quasi tutte donne. I ragazzi sono silenziosi, quasi azzittiti dall’enormità di quanto accaduto lì dentro, che a loro deve apparire lontano e incomprensibile. Così tra loro c’è chi - a domanda - a malapena riesce a dire qualche frase di circostanza. E chi invece si mostra preparato, quasi saggio a dispetto della giovane età. «I miei nonni furono deportati ad Auschwitz - spiega Edoardo, 17 anni, sguardo intelligente, berretto tradizionale ebraico in testa - e sin da piccolo a casa mia mi hanno raccontato dei campi di sterminio.

Ma è la prima volta che ne vedo uno, e sono molto emozionato». A lui e agli altri Mirella racconta, girando tra le immense distese sassose sulle quali si indovinano le fondamenta delle baracche demolite, la sua vita lì dentro.

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