Sono molto stupita del coro di elogi che viene rivolto a Cossiga da tutte le parti. È vero che il Palazzo non sa fare a meno di cogliere ogni occasione per vantare se stesso; ma il Cossiga che ha percorso tutti i gradini della carriera politica senza dare nulla all’Italia, salvo le battute maligne con le quali aggrediva, sotto false spoglie, amici e nemici, non merita neanche la minima parte di questa esibizione di solidarietà corporativa.
Io posso dire quale sia stato il comportamento di Cossiga come ministro dell’Interno durante gli anni della contestazione e delle Brigate rosse, vissuti di persona nella Facoltà di Lettere della Città Universitaria, vedendo uccidere, azzoppare, incutere il terrore a professori e studenti. La proditoria uccisione, mentre saliva le scale della Facoltà, di un uomo buono e giusto come Bachelet, ne rimane per sempre come la più tragica testimonianza.
Eravamo soli, assolutamente soli. Non un poliziotto, non una guardia all’ingresso, nei vialetti, nei corridoi, nelle aule. Il ministro dell’Interno aveva fatto sapere che il suo rigoroso rispetto per la normativa che impediva l’ingresso di forze di polizia nelle Università, comportava che non avrebbe mandato nessuno, neanche disarmato, a vedere quello che succedeva, e che di conseguenza ce la dovevamo cavare da soli. Il signor Cossiga sapeva bene che si trattava di una norma del Medioevo, quando lo spazio delle Università era «sacro» quanto quello delle Chiese perché il «sapere» era ecclesiastico. Nulla a che fare, perciò, con le moderne università, aperte a tutti. Prendere in giro il mondo contando sull’ignoranza comune, era però la prassi consueta della sua malignità e della sua vigliaccheria.
Il disprezzo per Cossiga era l’unica cosa che ci univa ai contestatori, ma abbiamo dovuto cavarcela effettivamente da soli. Molti professori e molti studenti hanno rinunciato a mettere il piede nella Città universitaria, facendo saltare quasi completamente la gestione dell’anno accademico. Quelli che hanno persistito (eravamo pochi ma sicuri della nostra scelta) a mantenere in vita l’orario delle lezioni e le sessioni d’esame, l’hanno fatto a rischio della vita, affrontando ogni giorno, come minimo, il pericolo d’innumerevoli forme d’intimidazione, con gruppi di contestatori installati nei pressi delle cattedre che imponevano una specie di controllo sull’argomento delle lezioni e sulla votazione degli esami e improvvisi allarmi su incidenti violenti nelle scale e nei cortili, con le molotov e i bazooka nascosti nelle cantine della Facoltà, pronti a essere usati.
Il ministro dell’Interno si era messo talmente paura nel vedere sui muri il suo nome scritto con la K, che ha deciso di tenersi alla larga dall’Università, non soltanto non mandando nessun poliziotto, ma perfino non chiedendo informazioni a nessuno di noi che nella Città universitaria ci vivevamo, ci lavoravamo, ci sforzavamo di provare che il «sapere», la scienza, lo studio, erano più forti della paura, e che questo era il nostro modo per salvare l’Italia.
Non voleva sapere, nel timore di essere poi costretto ad agire. Aver dovuto assistere all’apertura dell’automobile dove si trovava il cadavere di Moro, è stato il dovuto coronamento della sua carica di ministro dell’Interno.
Non l’aveva cercato, malgrado tutti fingessero di cercarlo, perché faceva comodo ai suoi amici, e forse anche ai suoi nemici, non ritrovarlo, e perché era troppo vile per mettersi a rischio.Giustamente, poi, qualcuno l’ha premiato promuovendolo presidente della Repubblica.
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