Dicono addio alla messa, ma su islam e immigrati i cristiani chiedono stop

Nel Vecchio Continente i credenti sono al minimo storico, ma nella Penisola la fuga dalla tradizione religiosa è più lenta che altrove

Dicono addio alla messa, ma su islam e immigrati i cristiani chiedono stop

In Germania le tappe della secolarizzazione vengono scandite dall'ufficio delle imposte. Per appartenere a una Chiesa bisogna pagare la Kirchensteuer, la tassa sulla religione, che pesa circa il 9% del carico fiscale medio e che a questo si aggiunge. Solo chi è in regola con i versamenti alla propria confessione ha diritto di ricevere i sacramenti ed essere inserito nel registro dei fedeli. Chi non paga e non si è fatto iscrivere all'anagrafe come ateo o agnostico viene perseguito come evasore: ad accorgersene a suo tempo fu Luca Toni, il calciatore italiano per qualche stagione in forza al Bayern Monaco. Così, ogni anno in luglio, quando gli enti interessati pubblicano le statistiche sulle dichiarazioni dei redditi dell'anno precedente, per le chiese è tempo di bilanci: nel 2017, in soli 12 mesi, tra cattolici ed evangelici i fedeli sono diminuiti di 660mila unità, l'anno precedente la cifra era stata di poco inferiore. Non tutti si cancellano dagli elenchi ufficiali, magari per risparmiare o per scarso interesse. Molto semplicemente il calo è in buona parte frutto dell'evoluzione demografica: gli anziani credenti muoiono, i giovani non frequentano le chiese. A partecipare a una funzione religiosa almeno una volta al mese è il 22% della popolazione, per la pratica settimanale si scende sotto le due cifre.

È l'Europa senza Dio, in cui a segnare l'addio alla fede sono anche e soprattutto le nuove generazioni. «In tutto il continente i giovani adulti non si identificano più con la religione né la praticano», ha dichiarato Stephen Bullivant, professore di sociologia alla St. Mary's University di Londra, autore di una ricerca sulla religione degli under 30.

FEDELI CHE CONTANO

Attenti, però: il fatto che il vecchio continente sia ormai «decristianizzato» non vuol dire che sia già venuta l'ora di liquidare come irrilevante la presenza nella vita pubblica di cattolici o protestanti. Anzi, tutto il contrario. A sostenerlo è il Pew Research Center, un centro di ricerca americano specializzato in analisi sociali e demografiche. Poco più di un mese fa ha pubblicato un'indagine frutto di un mega sondaggio condotto in 15 Paesi. L'obiettivo, come sintetizzato dal titolo, «Essere cristiani oggi nell'Europa Occidentale», era quello di mettere a fuoco la presenza e i valori dei credenti nel vecchio continente. Il risultato: «La maggioranza dei cristiani europei sono ormai non praticanti, ma i loro atteggiamenti si distinguono nettamente da chi non ha affiliazioni religiose, non solo per quanto riguarda Dio e il ruolo della religione nella società, ma anche sui problemi sociali, l'atteggiamento verso l'islam e verso l'immigrazione». I cristiani, insomma, sia pure a «bassa intensità», ci sono e si notano.

Le prime cifre della ricerca (vedi anche i grafici pubblicati in queste pagine) riguardano la frequenza religiosa. E da questo punto di vita l'Italia, con un altro pugno di Paesi come Portogallo e Irlanda, si presenta come una specie di ultimo bastione della fede. Il 40% degli abitanti della penisola dichiara di andare in chiesa almeno una volta al mese. È la percentuale più alta d'Europa e a seguirci sono, appunto, il Portogallo con 35 e l'Irlanda con 34. Se si tiene conto anche dei non praticanti, in prima posizione con l'83% di cittadini che si definiscono cristiani è il Portogallo, seguito a pochi passi ancora da Irlanda e Italia a pari merito. Da notare l'abisso che ci separa da Paesi come l'Olanda (solo il 42% degli abitanti si dice cristiano), Svezia e Norvegia (52%), ma anche la posizione dell'un tempo cattolicissima Spagna, dove il livello di chi va in chiesa almeno una volta al mese è al 21%. In Italia, poi, è bassissima la percentuale di chi fa professione esplicita di ateismo o agnosticismo (il 15%), solo le solite Irlanda e Portogallo ci eguagliano mentre in Spagna il livello è doppio.

DIFFERENZA DI VALORI

La raffica di cifre non impressiona più di tanto Franco Garelli, docente di Sociologia delle religioni all'Università di Torino. «Qui si parla di frequentazione mensile, se si guarda a quella settimanale siamo anche sotto il 20%. È una pratica discontinua e sempre più culturale, una religione che viene recuperata nei momenti fondanti della vita familiare, il battesimo, il matrimonio, i funerali». Il tutto vissuto un po' all'italiana: «Rimaniamo un po' a metà strada: non abbiamo le tradizioni laiciste di altri Paesi, e allo stesso tempo l'apparenza è quella di una adesione non piena, mai vissuta totalmente».

Quanto agli atteggiamenti specifici dei cristiani, praticanti e no, la distinzione è quasi ovvia su temi come l'aborto o i matrimoni gay. Nei 15 Paesi presi in considerazione il 52% dei praticanti accetta, sia pure in alcuni casi, l'aborto legale e il 58 le nozze gay. Dati che possono sembrare rilevanti ma restano sensibilmente diversi rispetto a chi non denuncia alcuna affiliazione religiosa, fascia in cui il sì raggiunge in tutti e due i casi l'87%. Differenze importanti si riscontrano anche su temi legati al sentimento patrio, al pluralismo religioso e all'immigrazione. «I cristiani nel loro complesso tendono ad esprimere in maniera più forte il senso dell'identità nazionale», dicono i ricercatori del Pew Center. Quanto all'islam il 49% dei praticanti europei pensa che sia incompatibile con i valori nazionali (nella media della popolazione la cifra è al 32%) mentre il 40 pensa che i livelli di immigrazione debbano essere ridotti (28% tra chi non appartiene ad alcuna chiesa). Da notare che in alcuni Paesi, Italia in testa, i cristiani diffidenti nei confronti della religione maomettana e degli immigranti sono una legione. Nella Penisola il 63% dei praticanti pensa che tra noi e il mondo musulmano ci siano differenze insormontabili (29% tra i non credenti). Valori simili ai nostri si hanno in Paesi come l'Austria e la Finlandia (dove peraltro i frequentanti le chiese sono molto pochi) mentre tra i praticanti spagnoli il dato scende al 43%. L'Italia ha anche il record tra i praticanti che vogliono uno stop o quanto meno un rallentamento dell'immigrazione, il 63% (36% tra i non religiosi). Con valori paragonabili ai nostri ci seguono solo Austria, Belgio, e Danimarca. L'atteggiamento diffidente dei fedeli italiani sembra fare a pugni con molte dichiarazioni sull'accoglienza delle gerarchie ecclesiastiche. «Credo che i vertici della Chiesa conoscano bene la posizione di chi va a messa ogni domenica», commenta il professor Garelli. «E io non interpreterei questi dati come il sintomo di una mancanza di solidarietà. È più probabilmente un atteggiamento di difesa: il timore che il superamento di certe soglie di sicurezza, l'eccesso, metta in pericolo un'identità culturale legata a quella religiosa».

DEVOTI PER REAZIONE

A proposito del fenomeno la ricerca del Pew Center sottolinea l'influsso che i più recenti movimenti migratori hanno avuto sugli atteggiamenti culturali dei credenti. Sul tema si cita un professore americano, Roger Brubaker, docente all'Università di California che ha parlato di «cristianità reattiva». Il meccanismo, sostiene Brubaker, è semplice. «Molti europei anche secolarizzati hanno guardato ai nuovi immigrati e hanno detto: se loro sono musulmani, allora in qualche modo noi dobbiamo essere cristiani». Un altro studioso, il francese Olivier Roy, è stato ancora più netto: «Se l'identità cristiana dell'Europa è diventata un tema è perché il Cristianesimo come pratica e fede ha perso terreno trasformandosi in un marcatore culturale sempre di più neo-etnico». E anche da questo punto di vista la Germania è un caso. Nei mesi scorsi il governo della Baviera ha stabilito di esporre il crocifisso in tutti i luoghi pubblici. Alcuni prelati, come Rudolf Voderholzer, vescovo di Regensburg hanno salutato con gioia la decisione: «La croce è l'epitome della cultura occidentale. L'espressione di una cultura di amore e compassione».

Ad avanzare riserve invece non sono stati tanto imam o rabbini, ma il cardinale di Monaco Reinhard Marx: «Concepire la croce come puro elemento culturale è un errore: è un segno di opposizione alla violenza, al peccato e alla morte, ma non un simbolo di esclusione».

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